Credo che il successo riscosso dal libro di Simone Perotti sia decisamente ben meritato e che, com'è evidente, segnali quanto sia esperienza comune e diffusa la stanchezza e la demotivazione tra le persone che continuano a condurre la propria vita sui binari sicuri (?) della carriera, del successo e della realizzazione professionale (che fino a poco tempo fa c'era perfino chi chiamava realizzazionetout court).
Evidentemente, vuoi causa la sempre crescente accelerazione dei ritmi competitivi e l'estensione di questi dalle aziende agli individui, vuoi la crisi, vuoi il disincanto che viene con l'età (e magari anche con l'avere già comprato tutto il sanamente desiderabile ed anche un po' di più), alle soddisfazioni che anche i gradini più alti del sistema produttivo consumistico possono dare non sono più così in tanti a credere ciecamente -almeno in cuor loro.
Il libro di Perotti ha avuto il merito di aiutare questo sentimento diffuso ad emergere e a dichiararsi (basta vedere il suo blog) da parte di molte persone. Ma ancor più di questo ha indicato una via, un percorso in tappe realistico e calcolato che, passando sia per gli aspetti materiali-economici che per quelli interiori- psicologici e di visione della realtà, conduce fuori dal senso di inevitabilità dell'accettare lo scambio tra la propria vita e le mitiche ricompense del consumismo.
Ciò che effettivamente dà valore ad Adesso Basta è il fatto che, prima di averlo scritto, l'autore ha messo in pratica ciò di cui parla e che suggerisce di fare: descrive e motiva una scelta che ha realizzato e che conosce e ciò è tanto più significativo perché viene da qualcuno che nel sistema della carriera e del successo, dei soldi, dei benefits e dei contatti importanti era davvero riuscito. Parla con cognizione di causa sia del cambiamento (dei suoi come, dei suoi perché) sia del mondo a cui apparteneva e che si è lasciato dietro.
Il fatto che persone di questo entourage compiano nei fatti scelte del genere può indubbiamente essere un'opzione che, in queste condizioni di partenza, appare molto più facile e possibile che altrimenti, ma può al tempo stesso rappresentare bene l'aspetto desiderabile di una semplificazione della propria vita, del rallentamento dei ritmi, del privilegiare il ritrovarsi con sè stessi, con la Natura, nelle relazioni personali, dell'abbracciare uno stile di vita più sostenibile e meno dipendente dai consumi, specie quelli superflui e perseguiti solo a fini di status symbol . Questa scelta fatta da chi si trova ai vertici del successo - o comunque a un buon livello: Perotti parla non solo di sè, ma porta esempi anche di persone alquanto più ricche di lui che hanno fatto qualcosa di simile - potrebbe in futuro perfino diventare essa stessa una sorta di status symbol, di creare tendenza, come si dice, di andare di moda e, sebbene quando le cose diventano una moda perdano al contempo in autenticità, ciò potrebbe essere un tassello del crescere e del diffondersi di una più ampia sensibilità per la necessità di una riconversione che va prendendo piede nelle coscienze. E questo può non essere l'ideale, ma certo è un elemento positivo. Di sicuro molto meglio della funzione criminale che svolgono molti dei personaggi di successo, dei cosiddetti VIP attuali, che fanno sognare alla gente come il massimo del desiderabile solo lo sfoggio di merci costose senza alcuno scrupolo di cosa comporti la loro produzione e da cosa venga il privilgio di averli.
Del resto è proprio la capacità di ditinguere, scegliere e riunciare a ciò che è dannoso ed eccessivo il frutto maturo della ricchezza
Inoltre - e non è certo da poco - Perotti, conti ed esperienza alla mano, mostra come e quanto il downshifting di cui parla sia non una chimera da ricchi sfondati o da sognatori, ma qualcosa di realisticamente alla portata di chi sappia costruirsela e guadagnarsela. E questa concretezza non è affatto secondaria nel rivolgersi - come lui fa - soprattutto a persone che, se hanno saputo farsi strada nel mondo del business, sanno farsi bene i loro conti e non si accontentano certo delle chiacchiere.
Altrettanto importante, nel suo realismo, è il sottolineare che non sta parlando di un percorso facile: che bisogna saper rinunciare, aspettare, costruire, scegliere ed avere sì coraggio (ed anche un pizzico di incoscienza, come lui dice), ma anche molta molta razionalità. Soprattutto nel saper vedere come le cose funzionano, in primo luogo dentro di noi, e saper distinguere ciò che è vero e necessario da ciò che non lo è.
Leggendo il libro mi sono accorto, d'altra parte, che si muove in una prospettiva diversa dalla mia. Non solo perché viene da un'altra esperienza e da scelte precedenti perfino opposte. Ma perché nelle cose che dice mi sembra che la consapevolezza degli effetti disastrosi di quelle strutture economiche e di potere con cui prima si collaborava e che ora si abbandonano per seguire la propria ricerca di un ben-essere personale autentico è sì presente, ma come elemento secondario, o di contorno, un po' a margine. Ed altrettanto sfumato avverto il riconoscimento, in questo nuovo benessere, di una conferma da parte della Natura (di un ordine non personale) della correttezza di queste scelte. In altre parole, mi sembra manchi un po' la percezione di quanto tutto sia legato in un'unica realtà.
Tanto Perotti fa giustamente leva sulla responsabilità individuale davanti alla propria vita per riappropriarsene positivamente (e forse - all'atto pratico - fa anche bene riuscendo così a toccare molte persone nel punto giusto per fargli aprire gli occhi), tanto però individuale rimane il punto di fuga della sua prospettiva.
Quando lui dice (a pg.55) se un uomo sta bene e non si sente schiavo facendo questa vita (quella tuttora inserita a pieno titolo nel sistema iper-produttivo/consumistico), perché quel che ottiene in cambio lo gratifica più di quanto non lo vincoli, allora evviva. Ma evviva sul serio, intendo, senza neppure un'ombra di biasimo. Il punto è l'equilibrio, la soddisfazione, la gioia, e ogni ricetta è buona. Un uomo consapevole è già un essere sulla via della libertà, sfugge già a molti condizionamenti. Ciò che vive, anche se somiglia all'identikit dello schiavo, lo vive con piacere, non se lo fa imporre, lo cerca addirittura io non posso essere d'accordo. O meglio, non può certo bastarmi questo: un uomo può ben trarre tutta la soddisfazione che vuole da un lavoro che ha direttamente o indirettamente effetti distruttivi sull'ambiente che lo cirdonda (o anche magari che si trova molto lontano da dove egli vive) e costruttivi di un sistema di sfruttamento dell'uomo sull'uomo, e può fare questo anche con uno spirito di libera scelta consapevole che così va il mondo, ma davanti a queste cose il punto non è la sua gioia, il suo presunto equilibrio o il suo subire o meno delle imposizioni. Rimaniamo qui in un'ottica tutta individuale, neanche antropocentrica, ma proprio individuale. O anche quando dice (come gli ho sentito ad una presentazione del suo libro) che quando vede suoi amici che vivono (presumibilmente con lauti profitti) di speculazioni finanziarie e vendita di fondi derivati , ma che in questo modo hanno un bel sorriso in faccia e sentono che ciò che fanno è davvero quello che vogliono fare e sono felici e che allora nel caso loro va bene così e c'è da esser contenti per loro, io non mi ci posso ritrovare. Proprio no. Non va per niente bene così invece. Speculazioni finanziarie e fondi derivati sono attività che non si possono non fare nell'ottica esclusiva del profitto e noncuranti delle conseguenze disastrose e ben note che hanno sulle persone e sul pianeta e personalmente dico chiaro e tondo che il mondo starebbe molto meglio senza e che, se chi oggi campa felice e realizzato grazie a queste cose (che si senta schiavo o meno - che poi lo sia di fatto o meno - a questo punto non mi interessa), domani, in mancanza di esse, dovesse trovarsi male e passare qualche brutto periodo, credo che sarebbe nè più nè meno che un problema suo, nel quale si è trovato perché ha fatto scelte sbagliate e che si dovrà risolvere da solo senza trovare altre attività dannose con cui permettersi di nuovo un tenore di vita esagerato. Ovvero: riconosco anch'io che ognuno fa bene a seguire la strada che sente sinceramente la sua e che lo realizza come essere vivente e può davvero darsi che questo - qualsiasi cosa sia - sia ciò che deve fare nella sua vita per seguire il suo percorso. So anch'io che il percorso di crescita e di consapevolezza di un essere umano può dover attraversare i passaggi più disparati. Lo so bene. Però al mondo siamo tanti (non solo esseri umani e individuali) e quindi possono esserci delle conseguenze perché anche gli altri o il mondo o le circostanze della vita e della storia sono liberi di presentare il conto di ciò che facciamo (essere in condizioni di non pagarlo non è un fatto di non essere schiavo, non di avere una buona ricetta per la gioia, la libertà e la soddisfazione, ma di rapporti di forza, che significa di poter imporre al resto del mondo le nostre pretese - o del fatto che questi rapporti non si sono ancora manifestati nella loro interezza, dato che l'ambiente naturale risponde lentamente
ma risponde). A volte anche in modo pesante. Perché, se questo suo percorso deve passare per attività che complessivamente sono dannose, lui dovrà pure doverle svolgere forse, ma il rapporto di forza tra il generale e il particolare fa parte della realtà e prima o poi fa valere il suo peso - come è giusto che sia. E - aggiungerei - non vedo quale salvataggio pubblico ci debba essere per chi ha sempre creduto nella competizione, nel libero mercato e nella sua autoregolazione anche a scapito degli altri. Se chi vince vince e chi perde perde, chi perde perde e punto, direi. Sia se a far perdere sono le leggi del mercato sia se sono i rapporti di forza nella conflittualità sociale sia se è il pianeta stesso che finisce per ribellarsi e mandare all'aria tutto. E in quest'ultimo caso, di certo, non ci sarà pietà. Non ce ne sarà per nessuno, purtroppo neppure per chi non ha colpe da questo punto di vista.
È per ciò che - al di là dell'effetto di sprone, come ripeto anche positivo ed efficace - mi sembra che ogni prospettiva incentrata essenzialmente sul benessere personale, per quanto inteso nel senso più elevato, sia piuttosto limitata.
Capisco che voler inquadrare la propria scelta coraggiosa di rivoluzione personale in una visione del mondo ampia, complessiva, renda i ragionamenti e i discorsi più pesanti ed i libri meno scorrevoli. E so che noi quarantenni ci siamo formati durante la caduta delle ideologie e perciò qualcuno di noi riesce ad esserne allergico ancor più (se possibile) di chi ne è del tutto digiuno. Però, se non ci poniamo la questione di un criterio di valutazione più generale, che vada al di là di ciò che piace a te o a me e che quindi non si basi sull'individuo - ma anzi, come cerco di argomentare un po' in tutti i vari testi presenti su questo sito, neppure su un qualsiasi punto di vista particolare, ma su quello dell'insieme della Natura nel suo complesso e nella sua realtà profonda - finiremo inevitabilmente per andare fuori strada, per non vedere rispetto alle nostre aspettative/desideri/ricerche di gratificazione un limite necessario (e non solo quello che ci aggrada secondo i nostri gusti e la nostra mentalità). Perché il mondo non è abbastanza grande per contenere tutti i nostri desideri - non la loro soddisfazione almeno. Finiremo dunque, presto o tardi, per entrare in conflitto gli uni con gli altri e, con l'obiettivo di prevalere, per ricostruire tutto l'apparato di potere e sfruttamento/distruzione che ci servirà allo scopo.
Di certo non attribuisco all'autore di Adesso Basta una indifferenza verso esiti di questo tipo. Sono convinto però che, nella sostanza profoda - che alla lunga sempre si manifesta - la scelta del downshifting non possa prescindere da un approfondimento nella consapevolezza di una visione più ampia che coinvolga le implicazioni, i presupposti, le cause, le conseguenze del sistema di lavoro, di produzione/consumo, di colonizzazione dell'immaginario (Latouche) dal quale ci si allontana e che è precisamente ciò che costituisce quel qualcosa verso il quale diciamo appunto adesso basta!. Anzi, direi che, faccia fin dall'inizio parte del programma o meno, una scelta del genere porta naturalmente ad approfondire una tale consapevolezza. Perché, come ben dice Perotti, la questione in ballo non è una scampagnata da buontemponi: è una guerra, e dunque a un certo punto bisogna stare da una parte o dall'altra. E, per poterlo fare, bisogna saper definire in cosa consistano queste due parti e quale sia lo spartiacque che le separa.
D'altr'onde (all'uomo di mare Perotti forse piacerebbe questo avverbio) è ben comprensibile come, scrivendo un libro che mostra la possibilità reale di dire Basta! e riprendersi la propria vita, il proprio tempo, la proprie gioie autentiche e non quelle promesse come bonus a scadenza aggiunto a qualche gadget, si voglia evitare troppa ideologia e filosofia. Si vogliono evitare analisi e programmi sui quali è automatico mettersi a discutere di cambiamenti politici, sociali
cose troppo grandi per poterle affrontare nello spazio della propria vita - magari per metà già trascorsa - senza rischiare di perdersi in chiacchiere, nella virtualità del dibattito politicheggiante, di illudersi di poter sostituire queste ai duri fatti, di non vedere nessun risultato vivibile; senza rischiare di sprecare tempo prezioso nel tentativo dichiarato di essere abbastanza d'accordo con abbastanza persone da costituire una forza capace di cambiare le cose - e nella speranza nascosta di rimandare all'infinito il momento di affrontare davvero un vivere in maniera diversa.
Perotti non ha nessuna intenzione di fondare un movimento e forse proprio per questo può esser riconosciuto come uno dei pionieri del modo attualmente possibile ed appropriato di cambiare le cose. Del modo in cui gente matura e responsabile, limitandosi a prendere sul serio la propria vita (e magari in una visione più ampia, la Vita complessivamente), testimoniando nei risultati il valore delle proprie scelte, senza proclami e programmi, può spostare il percorso della società. Perché molte persone che cambiano il proprio modo di vivere diventano un movimento di fatto, che può essere perfino ben più effettivo di un'altro che si proclama ed intende essere tale.
Al di là di tutto il resto, forse, credo che il pregio più grande del libro di Perotti sia in realtà quello di aggiungere un elemento particolarmente lucido in più ad una tendenza che da più parti si va manifestando progressivamente: quella cioè di immaginare e praticare alternative al sistema di cose imperante che partono dalla presa d'atto del fallimento della politica che si sostanzia in primo luogo nelle molte ragioni che i cittadini hanno per non riporvi più la propria fiducia e le proprie speranze di cambiamento. A fronte di ciò - che è un fatto innegabile e ben motivato - rimane l'esigenza di questo cambiamento e che sia qualcosa di esperibile direttamente, nelle nostre stesse vite. Come pure rimane, insieme al bisogno di ritrovarsi con altri che sentono cose affini alle nostre, la scarsa disponibilità ad uniformarsi ad una qualche linea prestabilita o stabilita da altri in nome di una presunta libertà superiore di là da venire, ad attenersi ad un programma e a dei valori che passino sopra la testa degli individui.
Ma come cambiare la società, come incidere sulla realtà su queste basi? Sembra che non resti che rifugiarsi nel proprio spazio privato e disinteressarsi apertamente delle sorti del mondo. Eppure è forse proprio da cambiamenti, da riconversioni, da scelte così radicali e coraggiose come quelle che, oggi come oggi, possiamo sentirci di fare solo in nome della qualità della nostra vita, del ritrovarvi un senso, che le cose possono cambiare.
Perché non saremmo mai d'accordo se ci mettessimo a discutere di un programma, nè ci fideremmo di un leader, non abbastanza almeno per seguirlo su una strada così difficile. Ma non ne abbiamo bisogno. Perché la nostra guerra pacifica possiamo - forse dobbiamo - combatterla ognuno da sè. Perché il nemico che abbiamo solo ognuno di noi può conoscerlo sufficientemente bene. Perché si trova dentro quanto fuori di noi. E perché si tratta di una vita diversa, con tutta la sua complessità, non di parole, sulla quale è meglio che ognuno segua la sua via e si farà prima a capirsi vedendo ciò che ognuno ne ha fatto. Perché è una biodiversità umana - e sociale e culturale - che bisogna ricostruire, non un partito con le sue necessarie menzogne, la sua necessaria propaganda. Non abbiamo bisogno di essere d'accordo su tutti i dettagli, sulle varie sensibilità, sui diversi approcci. E se non ne abbiamo bisogno, possiamo osservarci senza niente da adeguare a niente. Possiamo fidarci. E vedere. Anche imparare.
E qui c'è un ulteriore aspetto importante di Adesso basta. Sta nel fatto che l'autore si espone al rischio di apparire arrogante - trovando invece, a mio giudizio, un giusto equilibrio nel linguaggio riuscendo a far capire di non esserlo. Ma è un coraggio che bisogna avere e un rischio che bisogna correre nel momento in cui si propone come indicazione per un'alternativa non solo una propria idea, una propria teoria, ma la propria vita, la propria esperienza. E l'esperimento, il nuovo sentiero che con essa si è tentato. Bisogna avere il giusto equilibrio, la giusta imparzialità per prendersi la responsabilità di offrire la propria realtà personale e non solo le proprie parole come proposta di un'alternativa possibile. Proprio perché vuole presentarsi come possibile. Ci sarà sempre qualcuno che ci ammonirà di non illuderci che il nostro caso particolare valga al di là di noi, che ci avvertirà di non crederci dei guru. Non siamo dei guru, ma questo non giustifica chi si rifiuta di chiedersi cosa un esempio potrebbe avere a che fare anche con lui e preferisce rimuovere sbrigativamente quel tanto di utile e di scomodo (e di possibile) che contiene.
Quando ne va della nostra vita dobbiamo essere autentici e seri e allora saremo troppo impegnati e attenti nel darci da fare per cercare di uniformare gli altri e il mondo ad un'idea. Ma sarà proprio lì che staremo cambiando le cose e la nostra attinenza ad esse per quello che sono, la nostra onestà in primo luogo con noi stessi, sarà la nostra base, la nostra piattaforma unitaria non deliberata, inconscia.
Un impegno onesto da cui ci riconosceremo attraverso i frutti che darà.
Il libro di Simone come le vite di downshifters, neo-contadini, neo-rurali e simili non possono costituire una piattaforma programmatica : sono dita che indicano la luna.
La luna è ampia e tonda e va vista in tutta la sua portata.
Guardando la stessa luna ognuno può concepire il proprio programma ed aprirsi la propria via.
E così anche il mondo cambierà. Piano piano, così come ruota la Terra e come cambiano le nostre vite.