Ecofondamentalista. Riflessioni di un neo-contadino
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PER UN'AGRICOLTURA NEO-CONTADINA

In sintesi…
L'agricoltura non è un settore dell'economia come un altro: è gestione del territorio, dialogo con la Natura, è ciò che dà forma ad ogni modello di società e che ci dà ciò che mangiamo, ma più ampiamente ciò di cui ci nutriamo e che dunque fa noi stessi. Le scelte di vita neo-contadine possono costituire una riconversione complessiva di vite individuali, ma anche dell'intero modello di società.E' importante avere una concezione dell'attività agricola e più in generale contadina aggiornata alle potenzialità che essa può avere come alternativa complessiva nel contesto attuale. Questo riguarda anche la politica a livello europeo come a quello nazionale. Occorre una visione di ampio respiro e di lungo periodo ed una legislazione in materia atta a favorire l'esistenza e la diffusione di produzioni agricole contadine, su piccola scala e del tutto ecosotenibili. Uno sguardo sulla situazione attuale e su alcune pratiche e proposte alternative.

(versione PDF)


Si dice che siamo ciò che mangiamo, ma in un'ottica più ampia possiamo dire che siamo ciò di cui ci nutriamo. Non solo di cibi e di acqua, dell'aria che respiriamo, degli spazi in cui ci muoviamo, dei contesti sociali e culturali in cui si svolgono le nostre vite, ma ciò che ci nutre e che fa di noi stessi ciò che siamo è la qualità delle esperienze, la condizione esistenziale in cui prende forma la nostra vita.
Allo stesso modo possiamo dire che una società si nutre delle attività produttive che la sostengono e le danno forma, del modello economico su cui si regge. Questo è effettivamente ciò che la alimenta e che condiziona le relazioni sociali e politiche tra i gruppi che la compongono. Da ciò nasce l'immaginario e l'ordine mentale con cui cerchiamo di dare un senso al mondo ed è a partire da questo che definiamo il “reale” e distinguiamo tra ciò che giudichiamo possibile e sensato e ciò che riteniamo non lo sia. Ci “nutriamo” di esperienze e dei contesti nei quali queste avvengono e le metabolizziamo in una percezione/visione della realtà secondo la quale prende forma la fisionomia della nostra vita. A partire da questa stabiliamo ciò che ci è simile e ciò che ci è lontano, anche estraneo, fino ad essere per noi alieno, impossibile. Neppure più immaginabile. Al restringersi della biodiversità nel nostro nutrimento complessivo corrisponde quello delle possibilità alternative che sappiamo immaginare e creare per trovare soluzioni nuove ai problemi che ci troviamo davanti.
Sebbene viviamo in un'epoca caratterizzata da un'ottica razionale e scientifica, proprio all'interno di questa sussistono in forma dissimulata elementi fideistici, superstiziosi e irrazionali basati, come spesso avviene in questi casi, sulla paura, quella paura atavica dell'anomia, di cadere nella perdita di ciò che conosciamo e che ci dà sicurezza.
In questa nostra civiltà ipermoderna la superstizione traspare nell'attaccamento alle abitudini consumistiche, alla possibilità di cambiare a piacimento gli oggetti di cui ci circondiamo, nella fede persistente - nonostante ogni evidenza - che saranno questi a garantirci la felicità, nell'affidare tutte le nostre aspettative di sicurezza alla presunta onnipotenza della tecnologia. I consumi sembrano testimoniare della nostra liberazione dalle limitazioni della necessità, ma non sembra esserci rimasta più altra scelta se non quella di adeguarci alla necessità unica: quella stessa del sistema di produzione/consumo che procede ormai secondo leggi e meccanismi tutti suoi.
Sempre più persone si accorgono della questione complessiva del nutrimento di cui viviamo.
Alcuni cercano di trovare delle alternative, modi diversi di gestire le produzioni, i consumi, l'economia, sia a livello individuale che collettivo, usando la propria immaginazione e le possibilità offerte da un lato dalle tecnologie e dall'altro dalla solidarietà e dalla cooperazione. Tra questi c'è anche chi cerca una via diversa a partire dalle radici, dalla produzione del cibo, dall'agricoltura. Una via che possiamo chiamare neo-contadina, riferendoci con ciò sia a chi proviene da origini estranee all'agricoltura sia a chi nasce già in una realtà rurale ed agricola e decide consapevolmente di restarci e portarla avanti oggi malgrado la cosa più ovvia sembrerebbe abbandonarla e puntare a tutt'altro.

Le promesse del progresso sembrano averci tradito mostrando il lato oscuro celato sul rovescio della loro medaglia: il futuro grigio e preoccupante che vediamo attenderci sul piano economico, ambientale, energetico, politico, militare, ecc… E le grandi ideologie ci appaiono ormai come il gioco di raffinati intellettuali. Gioco ad un tempo affascinante nella complessità della sua coerenza logica eppure ingenuo e semplicistico nella sua inadeguatezza ad applicarsi alla realtà. Un gioco al quale abbiamo imparato a non credere più. Rimanendone però orfani.
Allora, può darsi non resti che credere in noi stessi, ripartendo da noi stessi, individualmente o in piccoli gruppi, e dalla Natura, la base che comunque, da sempre, ci sostiene. Dalle cose più basilari costruire l' “altro mondo possibile” di cui sentiamo fortemente il bisogno.
Può essere solo uno tra i molti modi di concepire un'alternativa, ma ha dalla sua solidi argomenti.

È molto facile comprendere che non possiamo costruire una soluzione lavorando ad alimentare il problema. Questo pone anche la questione di immaginare un modello di società, ovvero di quale settore economico e quale modello culturale possano svolgere in essa un ruolo portante.
L'agricoltura è l'attività originale, dalla quale dipendono tutte le altre. Tutto lo sviluppo di qualsiasi civiltà si è costruito sulla base di essa. Perfino quello delle società non agricole, come la nostra, la cui ricchezza si regge sulle materie prime e la manodopera ottenute al basso prezzo che i paesi del Sud del mondo accettano in quanto società composte ancora in gran parte da contadini. Se così non fosse - e le conseguenze dello sviluppo nei cosidetti paesi BRIC già lo stanno mostrando - non potremmo sostenere a lungo i nostri livelli di consumo, né di welfare. La competizione internazionale aumenterebbe in modo drammatico fino ad avere probabilmente esiti bellici e l'impatto ambientale globale crescerebbe in modo esponenziale, rendendo così manifesto che per un'umanità pienamente industrializzata, ipersviluppata e consumista su questo pianeta semplicemente non c'è posto. Risulta ormai evidente che occorre una drastica riduzione, sia nella produzione che nel consumo: abbassare i livelli di ricchezza materiale. Questo è tassativo, soprattutto nei paesi cosidetti sviluppati. Ma come si potrà evitare, senza mettere in conto che una quota importante di beni primari autoprodotti debba sostituire le merci ora acquistate con i salari, che questo ridimensionamento dei consumi si traduca nella miseria generalizzata per i milioni di disoccupati che si creerebbero e nel tracollo delle strutture e dei servizi pubblici ? Come non dover assistere di nuovo a masse di persone pronte ad uccidersi a vicenda per accaparrarsi ciò che gli serve a mandar avanti il sistema dal quale dipendono totalmente ?
Bisogna riconoscerlo una volta per tutte: non sarà sufficiente limitarsi a sostituire alcuni tipi di prodotti con altri mantenendo questi livelli di consumo. Serve una riduzione in termini assoluti. E sembra difficile immaginare che, nel lungo periodo, un sistema socio-economico-culturale veramente ecosostenibile, possa essere altro che uno incentrato sull'agricoltura contadina, biologica e su piccola scala, che è del resto l'attività della quale gli esseri umani hanno vissuto per millenni.

Questo non significa, come alcuni vorrebbero far credere, che la soluzione indicata corrisponda a sprofondare nelle epoche buie del Medioevo: l'alternativa teorica che spesso viene posta tra l'attuale modello imperante della crescita obbligatoria e il dover tornare alle candele, al freddo e alla fame è solo una disonesta mistificazione. Null'altro che una superstizione: la versione moderna del “pianto e stridore di denti” paventato nelle rappresentazioni (queste sì) medievali dell'inferno - al quale oggi saremmo condannati come in-fedeli al dio Progresso.
Si tratta di non farsi impressionare da tante limitate e limitanti certezze che hanno più dello psicologico che del razionale. C'è chi vorrebbe negare la possibilità stessa di un'alternativa facendo passare l'equazione: “Se non puoi essere fuori dal sistema al 100% non puoi esserlo affatto” e perciò “per quanto tu ti illuda di trovare un'altra via, da questo punto di vista siamo e saremo sempre tutti uguali, nella stessa barca”.
Ma la costruzione di una vita neo-contadina come alternativa concreta non compromessa col sistema distruttivo/inquinante/consumistico è radicale ed è reale proprio nella misura in cui avviene progressivamente qui ed ora nei limiti del possibile attraverso una serie numerosissima e multiforme di scelte individuali che sono già qualcos'altro mentre sono ancora parte di ciò che c'era prima.
È il processo naturale con cui avviene l'evoluzione delle specie, come quando un bruco diventa una farfalla. E può essere il processo che compie la società stessa che, attraverso una moltitudine di scelte indviduali, si apre una nuova strada. Si tratta di riacquistare in prima persona la propria autentica libertà sottraendola alla superstizione di una Storia di cui ci eravamo riconosciuti gli artefici all'inizio della Modernità e di cui siamo finiti ora prigionieri, mossi su un binario unico ed obbligato da meccanismi resisi indipendenti da noi.

Nella scelta di vita neo-contadina la parola “neo-“ è altrettanto importante di “contadina”.
Non si tratta di un ritorno al passato - che del resto sarebbe impossibile.
In uno stile di vita che possa dirsi neo-contadino non è indispensabile essere agricoltori a tempo pieno: basta anche un bell'orto, alcuni alberi da frutta, poche galline. Basta che il rapporto fisico/lavorativo con la Natura abbia un ruolo anche parziale, purché economicamente significativo, nella nostra vita e che viviamo questo rapporto con una consapevolezza ecologica.
In realtà può essere più “neo-contadino” il musicista o l'infermiera part-time che a casa curano un bell'orto e due arnie di api, ma hanno una coscienza ecosistemica che dà forma a tutta la loro vita, rispetto all'imprenditore agricolo che conduce la sua stalla modello dove le mucche non si muovono dai box e vengono nutrite solo a mangimi o che coltiva grandi estensioni a monocoltura in un'ottica di produzione industriale con prodotti chimici ed enormi mezzi meccanici. E magari compra tutto ciò che mangia al supermercato.
Questi non sono contadini perché non hanno un rapporto contadino né con la terra, né con il cibo, né col loro lavoro.

La scelta neo-contadina, pur essendo fondata su una visione della vita e della attuale situazione del mondo abbastanza precisa, non è una posizione ideologica. Non c'è un programma politico da realizzare, ma una vita da vivere. Ed un tipo di economia in cui è difficile ed un po' improprio distinguere tra vita e lavoro. Un neo-contadino può non riuscire a - o anche non voler - vivere di sola agricoltura (del resto gli agricoltori tradizionali son sempre stati anche un po' falegnami, muratori, artigiani, meccanici e molto altro secondo le inclinazioni personali e le necessità…). Capita infatti molto spesso che chi è andato a vivere in campagna e si mantiene in parte comunque significativa di autoproduzioni svolga parallelamente occupazioni diverse di ogni genere per sostentarsi e/o per propria passione, interesse o competenza. Il poter contare su una base agricola contadina in questo caso dà però alcuni importanti vantaggi. Tra questi, due sono più rilevanti sul piano personale ed anche su quello del proprio ruolo/impatto nel mondo:
- In questo tipo di vita si impara naturalmente a ridurre i consumi, vuoi dovendo fare di necessità virtù in quanto è probabile che si abbiano comunque meno soldi a disposizione, vuoi perché inizialmente parte di questi vanno spesi in realizzazioni strutturali a lungo termine, vuoi perché ci si autoproduce una parte del cibo e di altri beni. Ma - ed è forse ciò che più conta - perché vivendo lontano da città e centri commerciali, vetrine e dalla competizione estetico-sociale ci si disabitua allo shopping, all'acquisto come modus vivendi. Questo, oltre a liberare la nostra mente da una quantità di futili illusioni, anche ben compensa alcuni problemi della crisi attuale sempre più caratterizzata da disoccupazione, impieghi precari e a termine.
- Inoltre la stessa abitudine al minor consumo - e quindi la ridotta dipendenza da uno stipendio - lascia maggior margine di scelta quanto agli impieghi da accettare, il che non solo aumenta le possibilità di scegliere quelli che permettano il part-time e concedano dunque più tempo libero, ma anche ci mette in condizione di distinguere eticamente tra lavoro e lavoro. Quando la base di autonomia economica contadina arriva a questo punto può esprimersi come una vera e propria azione di boicottaggio/non-collaborazione verso quei settori produttivi che riconosciamo come non sostenibili. Possiamo permetterci di accettare esclusivamente occupazioni in attività che sarebbero utili e necessarie anche in una società che riterremmo “sana”.

Una azione di “boicottaggio” su scala così individuale, si dirà, è irrilevante. Ma se riconosciamo come tutto il sistema dei consumi, della distruzione ambientale e dello sfruttamento altrui è veramente alimentato dai milioni di comportamenti economici individuali, possiamo capire che questi ultimi non sono affatto irrilevanti e che il contributo principale che possiamo dare si trova proprio su questo piano. Che non è cosa da poco, perché se non lo diamo in un senso lo diamo nell'altro.
Allora è già una realizzazione importante, per chi, con tutte le difficoltà del caso, ha scelto una condizione neo-contadina, sapere che se anche questo “Sistema” e ciò che gli è strutturalmente legato domani venisse a mancare, probabilmente subiremmo anche noi delle forti conseguenze e, tuttavia, non moriremmo di fame o di freddo, né il tipo di vita, il mondo col quale ci riconosciamo, scomparirebbe, né ne sarebbe sconvolto nella sua identità.

Certamente la scelta radicale di dedicarsi all'agricoltura professionalmente e a tempo pieno, di fare di essa la propria unica o principale fonte di sussistenza ed anche la possibilità di trovare o mettere su una azienda agricola per piccola che sia non sono facilmente alla portata di tutti. Senza dubbio, bisogna crederci davvero.
Anche nelle città, però, un cambiamento radicale nei consumi e nei comportamenti è più che possibile.
In primo luogo anche quando il cittadino, dal punto di vista agricolo, rimane essenzialmente un consumatore, può riconoscere il proprio ruolo in quello che Carlo Petrini di Slow Food definisce di “co-produttore” ovvero sostenitore-partecipante alla possibilità economica di un'agricoltura di qualità, biologica, autogestita e su piccola scala. È grazie al fatto che ci sarà qualcuno che comprerà quei prodotti e non altri, pagandoli per l'impegno che richiedono, che il produttore può continuare a fare il proprio lavoro in agricoltura, dove l'elemento della continuità è essenziale. Dunque è importante il rapporto stretto città-campagna nel quale i gruppi di acquisto come i GAS ed i mercati biologici contadini sono gli snodi centrali che sarebbe auspicabile si moltiplicassero fino a trovarne in ogni paesino e in ogni quartiere.
Parallelamente a questo ci sono diverse esperienze di autoproduzione attive in molte città del mondo: primi fra tutti gli “orti urbani”. Numerose associazioni ed amministrazioni comunali ne hanno creati anche in molte città italiane quali Torino, Milano, Bergamo, Treviso, Genova, Bologna, Firenze, Pisa, Padova, Rimini, Livorno, Pesaro, Savona, Roma, Napoli, Palermo, Vedano al Lambro (Mi), Lacchiarella (Mi), Cinisello Balsamo (Mi), Alba (Cn), Muggiò (Mi), Chivasso (To), Grugliasco (To), Orbassano (To), Buccinasco (Mi), Bresso (Mi), Peschiera Borromeo (Mi), Rivoli (To), Saronno (Va), Settimo Torinese (To) ed altre che se ne aggiungono di anno in anno.
Il fenomeno “para-agricolo” degli orti urbani è il segnale che oggi l'agricoltura su piccola scala può essere intesa anche da un altro punto di vista per il quale l'aspetto produttivo e la rilevanza economica su scala macroscopica diventano secondari. Praticata con coscienza ecologica ed in primo luogo (ma non solo) per autoconsumo, l'agricoltura neo-contadina, nel contesto dell'epoca attuale non è solo un'attività economica, ma anche e forse soprattutto una risorsa esistenziale.
Si è ancora abituati a considerare l'agricoltura come un settore economico tra gli altri. Ed è normale che, messe le cose su questo piano e visti i bassi livelli di reddito che consente, quella contadina nei nostri paesi tenda a sparire dal panorama delle occupazioni interessanti per i giovani e ad essere considerata un'attività residuale. In realtà in Italia (dove si trova il 21% delle aziende agricole dell'Europa a 25) l'estensione media per azienda è di 5,3 ettari e nel 47% di esse inferiore a 2, il che significa che la conduzione familiare, contadina e su piccola scala è tuttora ampiamente maggioritaria, sebbene sia data per semi-estinta dalle politiche concepite essenzialmente per le imprese agro-industriali.
L'agricoltura industriale attuale nei paesi sviluppati - che peraltro si serve regolarmente di macchine che consumano complessivamente più energia di quanta ne restituiscano in beni prodotti - non sembra, d'altra parte, trovare veramente il suo valore economico nella produzione di alimenti (che sarebbe - da quel punto di vista - probabilmente più conveniente lasciare del tutto ai paesi in via di sviluppo) ma a far girare tutto il carrozzone legato alla vendita di macchinari, all'industria alimentare e alla grande distribuzione, ad assicurazioni, banche, finanza, industrie chimiche e biotecnologiche, servizi, consulenze, trasporti e quant'altro che comunque alimenta la circolazione di denaro e con ciò questo tipo di economia “avanzata” che è sempre più e soprattutto virtuale e finanziaria.
Se vogliamo trovare una via d'uscita dal continuare a riprodurre un sistema i cui effetti ci attendono minacciosamente nel prossimo futuro, ciò che dobbiamo fare è proprio abbandonare il piano della virtualità: recuperare una percezione reale della vita e del mondo. Nella fase storica in cui stiamo vivendo la cosa più necessaria e più preziosa che possiamo coltivare nel lavoro agricolo, forse ancor più che frutta e verdura, miele, carne e formaggi, è la pratica di una gestione olistica dell'ambiente riconoscendocene parte a partire da una condizione di esperienza vissuta, al tempo stesso fisica e spirituale, che ci riconnetta con la realtà fondamentale della Natura dentro e fuori di noi e ci riporti alla reale base, misura e dimensione delle cose. Ad una nozione di necessità e di senso. Questa è la cosa che più ci manca e di cui maggiormente abbiamo bisogno per sopravvivere felicemente agli immensi problemi che lo sviluppo ha manifestato come suoi effetti collaterali. Una conoscenza che non possiamo apprendere dai libri, ma attraverso l'esperienza e che poche cose - forse nessuna - come il lavoro contadino può darci.

Purtroppo la realtà attuale in cui deve sopravvivere chi ha voluto fare di tale esperienza la sua vita e il suo lavoro è regolata secondo un'ottica ben diversa da questa. La Politica Agricola Comunitaria europea (PAC) è un quadro concepito a misura delle grandi aziende agroindustriali nel quale quelle contadine - che lavorano su piccola scala, a conduzione familiare, con bassissimo impatto ambientale, minimo impiego di capitale e meccanizzazione e senza manodopera dipendente - sono contemplate solo come eccezioni residuali e marginali. Questo ha anche l'effetto di rendere i loro prodotti - che per qualità e rintracciabilità della filiera sarebbero i più rispondenti alle attuali aspettative dei consumatori - più costosi e spesso fuori mercato.
I regolamenti europei che stabiliscono le linee di riferimento (anche in materia sanitaria : 852 e 853/04, 178/02, 2073 e 2074/05 ed altri correlati più la legge nazionale 283/62 col DPR 327/80) vengono applicati a livello nazionale e locale secondo un criterio che agisce di fatto in maniera selettiva a favore delle aziende più tecnologizzate, con maggior impiego di capitali e che possono avvantaggiarsi di economie di scala. I requisiti di controllo sugli alimenti e sugli ambienti di lavorazione, i metodi e gli strumenti di produzione e di vendita che vengono richiesti, insieme alla mole d'impegno che impongono gli adempimenti burocratici sono tali da assorbire da soli ingenti risorse finanziarie. Questo porta di fatto ad una progressiva marginalizzazione delle produzioni contadine a causa di regolamenti apparentemente uguali per tutti, ma chiaramente ispirati alla logica della competizione commerciale globalizzata che impone dimensioni aziendali tali da consentire le economie di scala ed il livello di standardizzazione che queste presuppongono. L'adeguamento di dimensioni e modalità produttive ad un modello unico ed universale, applicabile ovunque, è la porta attraverso la quale si entra nell'arena del mercato globale - ed ormai anche di quello locale nella misura in cui questo è dominato da quello. Ed è altrettanto ciò che informa la mentalità e il linguaggio di tecnici, consulenti ed associazioni di categoria che giustificano la propria esistenza nell'assistenza agli agricoltori, ma che pure hanno avuto, finora, il ruolo di traghettatori di questi ultimi dall'equilibrio del modello contadino tradizionale all'imperativo della crescita: l'attuale rincorsa continua dietro a normative, finanziamenti, banche, assicurazioni e nuove trovate della chimica e della bioingegneria. Una tendenza che non sembra avere rosee prospettive di futuro - se i coltivatori intanto si sono ridotti al 4% della popolazione attiva e traggono il 70% del proprio reddito non dal prodotto del loro lavoro, ma da contributi europei che assorbono circa il 40% delle risorse comunitarie - e che però ha assicurato un ruolo ormai inevitabile nel mondo del settore agricolo a tutta una serie di figure professionali che gli sono fondamentalmente estranee.
È chiaro che per una piccola azienda familiare non è facile lavorare se varie ore al giorno devono essere spese per documenti e procedure spesso di non facile svolgimento e comprensione. Si rende necessario rivolgersi ai tecnici i quali diventano un costo fisso aggiuntivo per ogni azienda che, se ben ammortizzato da quelle grandi, può essere gravoso per le piccole. Inoltre è ben possibile che “esperti” ed amministratori acquisiscano, alla lunga, interessi propri e più facilmente coincidenti con quelli dell'agroindustria, non solo per convenienza, ma anche per la maggior facilità a lavorare con grandi sistemi razionalizzati piuttosto che con una molteplicità di produzioni agricole/alimentari eterogenee e diversificate sul territorio. Così un certo modello di riferimento diventa egemone dal livello globale a quello locale e viceversa.
Lo “Sviluppo Reale” - la forma in cui l'ideologia dello sviluppo si è di fatto realizzata nella storia - implica un notevole grado di standardizzazione e pertanto, specialmente quando si applica ad un campo d'azione biologico, com'è quello agricolo, è per definizione un fenomeno avverso alla biodiversità.
L'adeguamento agli standard nei processi di produzione, insieme alle dimensioni aziendali imposte dalla competizione, richiede ingenti investimenti strutturali e tecnologici e d'altra parte comporta un impoverimento in certa misura inevitabile nelle proprietà organolettiche, nel sapore e nella tipicità degli alimenti. È comprensibile dunque come, per l'industria agroalimentare - che, non va dimenticato, è attivamente presente come lobby nei palazzi di Bruxelles e nei ministeri nazionali - sia una questione rilevante l'esistenza o meno di forme di concorrenza, anche “pulviscolari”, ma diffuse sul territorio, in grado di proporre prodotti migliori e con costi di produzione inferiori non dovendo sostenere strutture complesse né spese pubblicitarie.
In settori non così “primari” come l'agricoltura i prerequisiti di conoscenze e tecnologie avanzate o di capitali necessari limitano naturalmente alla base le possibilità di accesso al mercato o pongono i produttori artigianali su una fascia di prezzo così elevata e di nicchia da essere irrilevante. Ma in quella che, da che mondo è mondo, è l'attività fondamentale dell'essere umano - la produzione del cibo - è solo attraverso qualche fattore esterno a fare da sbarramento che si può creare un gap incolmabile per i concorrenti più piccoli. Il “fattore esterno” che entra in campo è quindi quello della burocrazia e delle normative che pongono come obbligatoria per legge una serie di requisiti per acquisire i quali è necessario un forte investimento finanziario spostando in questo modo il terreno della concorrenza da quello propriamente agricolo della qualità del prodotto a quello imprenditoriale della disponibilità di capitali. La razionalizzazione delle tecniche di produzione - necessaria alle economie di scala e che comporta costi ingenti da far ricadere poi sul prezzo finale - viene imposta anche alle aziende le cui dimensioni non la richiedono e per le quali non saranno in condizioni di recuperarne l'investimento. Queste sono dunque poste prima fuori mercato e poi, non potendo dotarsi dei requisiti minimi, pure fuori legge.
In questo quadro hanno un ruolo decisivo le normative sanitarie. Di fronte all'opinione pubblica e dei consumatori si va così a toccare un tasto molto sensibile: ne va della sicurezza. Ma, a ben vedere, le normative stringenti in vigore in Europa (le più severe del mondo) non hanno impedito i numerosi scandali alimentari (mucca pazza, uova e polli alla diossina, mozzarelle blu, vino adulterato ecc…) tutti peraltro sorti dai sistemi di produzione industriali. Gli stessi che ci mettono negli alimenti le molte sostanze pur legali, ma di dubbia salubrità, che mangiamo quotidianamente.
Pur essendo innegabile la necessità di normative rigorose sull'igiene, queste potrebbero essere diversificate lasciando spazio a procedure specifiche secondo i prodotti e le concrete condizioni locali anche semplificandole dove possibile. Di fronte all'eccessiva rigidità con cui spesso vengono applicate le direttive in materia vien da chiedersi come l'umanità abbia potuto sopravvivere fino a ieri quando il cibo si produceva, si vendeva e si consumava in modo tradizionale e come facciamo noi stessi oggi a non ammalarci in continuazione facendoci da mangiare nelle nostre cucine casalinghe che, pur essendo generalmente dignitose e pulite, non sarebbero certo in regola secondo i criteri richiesti dalle asl nè vi prepariamo i pasti seguendo una procedura haccp. Ed ancor meno si spiega come faccia a sopravvivere la maggioranza della popolazione mondiale nei paesi dove le regolamentazioni in vigore da noi non sarebbero neppure immaginabili.
Viene il dubbio che tali normative, così come sono oggi, non abbiano l'unico scopo di garantire la sicurezza alimentare, né che siano il solo modo possibile per ottenerla, né che prendano adeguatamente in considerazione tutti i fattori importanti per raggiungerla.
Quando determinati attori della competizione giungono alla posizione di poterne stabilire le regole ed i requisiti per parteciparvi, siamo al punto in cui sono essi stessi il Mercato e, che che si dica di mani invisibili che lo autoregolano, non c'è in realtà più competizione, ma oligopolio, nè libertà d'impresa né libera scelta dei consumatori, per cui neanche sussiste più quell'aspetto della democrazia che possiamo definire democrazia alimentare.

Per recuperare questo aspetto della democrazia - insieme ad un cibo ed un ambiente sani, un paesaggio curato e grandi potenzialità di occupazione - è necessario che le politiche eurocomunitarie e nazionali, anziché tollerare l'agricoltura contadina come un'anomalia in estinzione, la mettano al centro di una concezione plurale e complessa dell'agricoltura in cui si eviti di mettere a competere sullo stesso piano attori che pari non sono. A tutti coloro che hanno a cuore una gestione sostenibile e lungimirante di quel dialogo eterno tra gli esseri umani e la Natura che dovrebbe essere l'agricoltura, si impone oggi l'urgenza di spazi di agibilità legale e commerciale altri da quelli pensati e regolamentati a misura dell'agroindustria.
Occorrono normative ad hoc, parzialmente in deroga a quelle attuali, ma che, in linea di principio, non sono neanche incompatibili con i regolamenti europei precedentemente citati i quali affermano esplicitamente di non applicarsi in caso di produzioni primarie per uso domestico e vendita di piccoli quantitativi direttamente a consumatori e dettaglianti (Reg. CE 852 e 853/04), di prevedere deroghe per prodotti alimentari fabbricati secondo metodi di produzione tradizionali (2074/05) e protetti come prodotti alimentari tradizionali dalla legislazione comunitaria, nazionale, regionale o locale (852/04), il che lascia anche agli enti locali ampio margine di scelte politiche in merito. C'è dunque uno spazio aperto nei criteri che informano i regolamenti europei di riferimento e pure il sistema della procedura haccp prevede un certo margine di personalizzazione.
Spesso, però, pesa molto, all'atto pratico, il fattore di una mentalità “tecnocratica” a determinare la forma dell'applicazione di tali normative, il grado di adattabilità ritenuto accettabile. E ciò si accompagna al timore dell'assunzione di responsabilità da parte di chi è preposto a rilasciare le autorizzazioni in assenza di criteri specifici e chiari. Quest'assenza va riempita da normative ad hoc per l'agricoltura contadina che il Legislatore dovrebbe elaborare in dialogo con le rappresentanze dei diretti interessati rispettando il principio (fondante per l'Unione Europea) della sussidiarietà ed alla luce delle numerose esperienze italiane ed estere di Certificazione Partecipativa (Francia, Brasile, Canada, Cile, Giappone… A titolo di esempio in Italia http://garanziapartecipata.blogspot.com ). Permettendo così da un lato ai contadini di avere norme chiare e non penalizzanti per poter lavorare e dall'altro per impedire ad eventuali “furbi” di turno di approfittare delle deroghe. Mancando questo lavoro attento che porti al riconoscimento e ad una legislazione specifica i piccoli produttori sono costretti in uno stato di semiclandestinità per cui le attività “in nero” diventano strategie inevitabili di sopravvivenza.

Esistono delle proposte in merito già messe in campo. Tra le altre, il lavoro sulle filiere corte ed i farmers' markets portato avanti da Coldiretti (http://www.campagnaamica.it) che, nell'ambito delle associazioni di categoria, si è distinta per una maggiore attenzione ai piccoli agricoltori; le reti di base dei GAS e di Genuino Clandestino (http://genuinoclandestino.noblogs.org) ormai diffuse in tutta Italia; ed una proposta di legge presentata nel 2010 su iniziativa di una serie di associazioni elencate sul sito dedicato www.agricolturacontadina.org ed accompagnata da una petizione popolare. Su questa ci vorremmo soffermare in quanto può essere una base organica di discussione per una legge in materia.
La proposta prevede che “chi, come occupazione prevalente, pratica la coltivazione del fondo, l'allevamento o la raccolta di erbe e frutti spontanei, esclusivamente per l'autoconsumo familiare e per la vendita diretta e senza intermediazione ai consumatori” in ambito locale ed il cui reddito complessivo lordo non sia superiore ai 30.000 euro, goda di “un regime normativo separato rispetto a quanto previsto per i coltivatori diretti” registrandosi, previa autocertificazione “attraverso comunicazione al Sindaco, in uno specifico Albo presso il Comune di residenza”. Che, per tale categoria di produttori sia permesso “trasformare e confezionare i propri prodotti alimentari e agricoli nell'abitazione o in locali annessi, attraverso le attrezzature e gli utensili usati nella consueta gestione domestica, purché spazi, attrezzature e utensili siano mantenuti adeguati e puliti secondo buon senso e responsabilità e purché dotati dei normali requisiti di abitabilità”. Sono inoltre previste una serie di semplificazioni ad hoc in materia fiscale, sull'etichettatura, sulla vendita diretta, sulla macellazione e lo smaltimento dei sottoprodotti animali, sull'ospitalità rurale, sullo scambio gratuito di manodopera e in campo previdenziale. Le facilitazioni sono riconosciute in quanto rivolte ad “un'agricoltura di basso o nessun impatto ambientale, fondata su una scelta di vita legata a valori di benessere o ecologia o giustizia o solidarietà” ed in base al fatto che
il lavoro contadino riveste un'importanza straordinaria e non sostituibile per sostenere e promuovere:
- la sovranità alimentare delle comunità locali e, più in generale, della nazione e la qualità e salubrità dei prodotti agricoli;
- il mantenimento economico, culturale e residenziale delle comunità locali, prevalentemente nelle aree montane e in quelle considerate economicamente marginali;
- la conservazione e la rigenerazione delle risorse ambientali, nonché della fertilità dei terreni, della diversità dei paesaggi, della salubrità delle acque interne, della biodiversità in ambito agricolo, dei saperi, delle tecniche e dei prodotti tipici di qualità;
- la difesa del suolo, l'equilibrio idrogeologico, le azioni di contrasto contro l'erosione e le inondazioni
”.

In ogni caso, dato che il cibo è una questione centrale per tutti e che, come dice giustamente Carlo Petrini “mangiare è un fatto agricolo”, una scadenza di interesse generale sulla quale non dovrebbe calare l'attenzione dell'opinione pubblica è il 2013 quando verrà varata la nuova PAC riguardo alla quale si concentrano le proposte dei movimenti attivi su questo fronte a cominciare da Via Campesina: http://www.assorurale.it/proposta_ecvc_sulla_pac_2013.html ,
http://www.assorurale.it/manifesto_di_annecy_per_una_pac_migliore.html

Infine una parola va spesa anche sulla questione dell'accesso alla terra, dato che, senza terra, per poca o marginale che sia, non c'è agricoltura. Oggi terre e casolari, sebbene abbandonati, hanno il loro prezzo di certo non a tutti accessibile e senza una politica pubblica dell'accesso alla terra le scelte neo-contadine saranno riservate solo a chi è nella condizione di potersele permettere. La legge 440/78 regola le modalità di assegnazione delle terre incolte, pubbliche o private. La loro assegnazione, dietro approvazione di piani di sviluppo aziendale, era compito delle Regioni le quali dovevano fare un censimento dei terreni interessati. L'applicazione di questa legge, però, deve aver trovato numerosi ostacoli se, ancora nel Pacchetto Anticrisi dell'agosto 2009 il ministro Zaia incaricò l'Agenzia del Demanio di censire i terreni incolti per assegnarli a giovani sotto i 40 anni che avessero presentato domanda di assegnazione. Parlò di molti ettari di terra da render disponibili entro il 2010 con la creazione di 6000 posti di lavoro, ma poi non se ne è saputo più nulla. Oggi c'è il cosidetto “federalismo demaniale”. Sarebbe opportuno vigilare che venisse interpretato come una gestione localmente centrata del demanio e non - come sembra stia avvenendo - una licenza di vendita dei beni pubblici per miopi urgenze di cassa nel tentativo di sopperire ai tagli del finanziamento statale agli enti locali.
Una bozza di proposta in questo senso è anche quella presente su questo stesso sito a http://www.ecofondamentalista.it/bozzaproplegge.htm. In questa però, a differenza della 440/78 che si applicava anche alle terre “insufficientemente coltivate”, il principio non è quello di ottenere la massima produttività, bensì della “massima sostenibilità”.
Perché il recupero delle terre abbandonate può essere un elemento utile a favorire un “downshifting” complessivo del modello economico anziché un'ulteriore spinta alla sua espansione ed in cui sarebbe proprio questo elemento decrescente e di riconversione verso la sostenibilità l'aspetto da coltivare.


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