Ecofondamentalista. Riflessioni di un neo-contadino
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COMPLESSITA' SVILUPPISTA E DEMOCRAZIA

In sintesi…
Mentre la politica accessibile alla generalità delle persone diventa sempre più uno spettacolo, le istituzioni che veramente contano sono sempre più non-elette. Questo fa parte dell'enorme crescita di complessità del sistema e della sostanziale mancanza di alternative possibili (senza far saltare le basi stesse del sistema) dal quale tutti sono indotti a credere di dipendere.
Il problema è che si tratta di un sistema non a misura d'uomo e fuori controllo.
Questa presunta mancanza di alternative è di fatto mancanza di democrazia reale. Mancanza della quale manca consapevolezza a partire dal non vedere il significato politico degli elementi semplici, basilari, di sussistenza, della nostra vita. La perdita di controllo su tali fatti elementari rispetto a periodi storici precedenti costituisce una progressiva perdita di autodeterminazione e con ciò di democrazia sebbene, secondo la vulgata corrente, sembri che le società evolvano in senso contrario grazie allo sviluppo.
La cessione di tali fatti economici elementari a meccanismi e strutture immensamente sproporzionate rispetto alla dimensione locale vissuta dalle persone è il modo attraverso cui queste stesse persone permettono a poteri estranei e sconosciuti di dar forma e direzione alle proprie vite e con ciò abdicano a diritti democratici duramente guadagnati dalle generazioni passate.
Per recuperare un percorso realmente democratico non è indispensabile abbattere direttamente megastrutture economiche e forze di potere, ma è necessario far nascere realtà piccole, individuali e comunitarie, che, diffondendosi come erbe selvatiche, coesistano con le megastrutture fuori controllo e si radichino fino a sopravvivere al loro crollo.

(versione PDF)

Nonostante la democrazia rappresentativa sia l'orgoglio dell'Occidente, il presunto contenuto della sua “missione” nel mondo, la giustificazione per uniformare le tante società umane che lo abitano alle proprie convenienze, non si può non vedere - a meno di tapparsi volontariamente gli occhi (o proprio di non averne, in termini di informazione e coscienza politica) - che le istituzioni e le sedi in cui si decidono oggi le questioni realmente rilevanti per la vita dei popoli - a cominciare dall'economia - non sono organi, consigli o assemblee eletti democraticamente. La Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, il WTO, la stessa ONU, per partire dalle più ufficiali, ma i vari G20, G8, G7, fino a ridursi presto, come molti osservatori prevedono, ad un semplice G2 USA-Cina quanto a chi davvero conta. E la NATO, le varie intelligence agencies statunitensi e non solo, ed i consigli di amministrazione delle grandi banche d'affari e delle corporations multinazionali, veri padroni del mondo attuale, fino al gruppo Bilderberg, per passare dai versanti più oscuri. E le visite semiprivate tra capi di Stato, per arrivare allo spicciolo, come in questi giorni Berlusconi che va da Putin per discutere accordi internazionali tra una partita di caccia e l'altra o altre visite analoghe in ville private o incontri tra il formale e l'informale, bi o plurilaterali sui quali ben poco è dato di sapere da parte dell'opinione pubblica. Sono tutti esempi di come le grandi questioni del nostro tempo, le scelte rispetto alle quali daranno forma alle nostre vite ed a quelle dei nostri figli, non vengano prese nè discusse secondo la volontà popolare, nemmeno mediata dalla rappresentanza attraverso elezioni o attraverso più gradi di rappresentanza come nel caso di elezioni in cui il voto (attivo e passivo) venisse riservato ad eletti - ma alla luce del sole.
All'uomo della strada, al cittadino (non parliamo dell'essere umano puro e semplice in quanto tale perché questo non è mai stato sufficiente) non resta che il teatrino massmediatico della politica: tanto ormai ridotto solo ad una delle varianti dell'offerta disponibile di entertainment che (ad esempio) la Pivetti è potuta agevolmente passare da Presidente della Camera dei Deputati a presentatrice televisiva spostandosi all'interno dello stesso mondo dello spettacolo non diversamente da come un impiegato statale può passare da un ministero ad un altro.
Se oggi siamo in perpetuo clima da campagna elettorale non è perché la passione politica è più alta rispetto a qualche decennio fa e neppure perché oggi sia maggiore la possibilità da parte della massa dell'elettorato (magari grazie ad internet o altre nuove tecnologie) di partecipare a decisioni epocali alle quali prima non aveva accesso. Al contrario: oggi la tensione dello spettacolo deve essere tenuta alta per mantenere vivo l'interesse e l'attenzione, i toni si accentuano e vengono tenuti regolarmente sopra le righe per evitare la bancarotta al botteghino ovvero che allo spettacolo non si presenti più nessuno ovvero che la gente non vada a votare, non creda più alle promesse e le giustificazioni di questo sistema e cominci a sviluppare un'estraneità ed una lontananza che non si sa a cosa potrebbe portare (ma certo non a continuare a credere nè alle marionette, nè ai burrattinai e nemmeno alla rappresentazione). Non c'è bisogno di sottolineare, credo, quanto questa eventualità sarebbe pericolosa per l'intero sistema basato com'è sul consenso che viene dato essenzialmente sul piano economico (con i consumi) più che su quello politico, ma che di un contesto politico (e soprattutto culturale) “democratico”, liberale e pluralista ha bisogno per non rischiare la caduta di un ottimismo indispensabile alla buona salute del mercato; ottimismo che sarebbe duramente colpito da un clima politico repressivo e totalitario.
Gli elementi ancora repressivi dello Stato nel capitalismo avanzato - ovvero nell'era della dipendenza dal consumismo - non possono che essere residuali perché all'orgia dei consumi che rappresenta il punto di fuga nell'attuale prospettiva culturale si accompagna necessariamente il culto della libertà individuale illimitata, del seguire e soddisfare la voglia del momento, della breve durata in tutto: in ciò che si ha, in ciò che si vive come in quanto si è disposti a prestare attenzione, ad aspettare, a resistere. Ed altrettanto vi si accompagna il culto della convenienza, della facilità, del basso prezzo, dell'aver ciò che si vuole subito e senza sforzo; vi si accompagna il dileggio della parsimonia, della lentezza e della profondità; si diffonde un generale disimpegno, una generale rilassatezza interiore rivolta a tutto eccetto alla tensione continua e crescente nelle attività dirette a procurare reddito ovvero a garantire i consumi.
Di fronte ad una mentalità comune di questo tipo uno Stato autoritario sarebbe inaccettabilmente impopolare ed è ben difficile immaginare oggi di tornare a sistemi totalitari come quelli sostenuti dall'irrigidimento ideologico dei primi tre quarti del secolo scorso. Certo non valgono più gli alti ideali di missioni civilizzatrici e Sol dell'Avvenire da imporre ad altri, né superiorità etniche o da elezione divina - non, almeno, quando si va oltre le chiacchiere, oltre le parole altisonanti e giunge il momento di rischiare la pelle, perché da noi, per fortuna, l' “armiamoci e partite” non funziona più tanto. L'unica cosa che ormai - rimanendo nell'opulento Occidente - può essere (ed è) sfruttata per giustificare e rendere accettabile l'esercizio della violenza legalizzata ed una certa limitazione delle libertà dei cittadini da parte dello Stato è la paura. La paura di un qualche totale estraneo - ad esempio un'organizzazione armata di fondamentalisti islamici o una massa di poveri che arrivano a (ri)prendersi una parte di ricchezza ma volendosi tenere pure la loro cultura fanno bene al caso nostro - che si affaccia minaccioso dal buio della sua alterità (“ic sunt leones”) per toglierci il nostro esclusivo benessere.
I motivi di minaccia costanti - una sorta di cronica situazione d'emergenza - ben giustificano, agli occhi di molti, che nel democratico Occidente, le decisioni che veramente contano e le sedi in cui queste vengono prese (e da chi?) vadano progressivamente sottraendosi al controllo (e anche alla mèra informazione) da parte dell'opinione pubblica ovvero dell'elettorato ovvero del popolo che dovrebbe essere in teoria sovrano in uno Stato di diritto - secondo quanto andiamo ad insegnare al resto del mondo.

D'altra parte - e non dico per scherzo - bisogna pure capirli questi potenti che vogliono discutere (e sperabilmente riuscire ad accordarsi) sulle grandi questioni senza essere sotto gli occhi del grande pubblico: non si può dire che in questo siano privi di qualsiasi ragione. I meccanismi che reggono il sistema mondiale attuale sono così enormi e così complessi che sfuggono inevitabilmente alla consapevolezza e alla capacità di giudizio (probabilmente degli stessi governanti - che sono al corrente anche di molti segreti - ma figuriamoci) delle persone comuni (che - anche se appartenenti alla minoranza più informata e consapevole - molte cose non le possono comunque sapere). Inoltre, per avere un approccio realisticamente operativo a queste immense problematiche bisognerebbe saper valutare l'intreccio di risvolti economici, politici, ambientali, tecnologici, culturali e considerarne le ripercussioni quanto alle varie minoranze etniche, ai mercati finanziari, agli ecosistemi specifici delle varie zone del pianeta, ai particolari contesti culturali dei vari popoli, agli equilibri interni ai diversi tipi di gruppi coinvolti, a tutte le questioni di natura tecnica e tecnologica che, di caso in caso, possono essere aspetti determinanti del successo o del fallimento delle soluzioni immaginate…… Non viviamo in una società o in un sistema semplice, non che possa essere dominato nella comprensione da parte di persone mediamente istruite né di esperti specialisti in solo qualcuno dei molteplici segmenti che descrivono la realtà e, per giunta, abbiamo tra le mani strumenti e meccanismi potentissimi che già usiamo senza poterne conoscere le implicazioni e gli effetti a lungo termine. Potremmo anche dire, semplicemente, che non viviamo in un sistema a misura d'uomo. E meno che mai a misura di “uomo comune”. Un sistema per il quale l'autentica democrazia si trasforma piuttosto in un ideale che si avvolge sempre più nelle vesti del sogno, non si sa se un sogno del passato o del futuro, ma oggi soprattutto uno di quei “grandi valori” di cui i politici si riempiono la bocca, ma, nei fatti, una pretesa, una velleità inadeguata ai tempi - sebbene venga spacciata come una realtà presente.
Intendiamoci: non sto affermando che viviamo in una dittatura magari occulta, né che gli ordinamenti politici dei sistemi occidentali e di molti altri non siano di tipo democratico. Senza dubbio possiamo votare (probabilmente chi è stato selezionato dai partiti per i quali “il voto non è sprecato”) e possiamo pure (se abbiamo i mezzi economici ed i contatti giusti per farlo senza che ciò sia uno sforzo destinato per certo a cadere nel vuoto) costituire partiti, fondare giornali e dire quasi tutto quello che vogliamo e se riteniamo di aver subìto un sopruso possiamo rivolgerci al giudice (e sperare che la legge sia uguale per tutti - indipendetemente dalla parcella del loro avvocato). Certamente. Però ciò che voglio dire è che questi poteri democratici che possiamo esercitare non toccano le grandi questioni del nostro tempo e che queste grandi questioni sono - molto più che le varie diatribe di opinione o di diritti formali su cui abbiamo ampia libertà di confronto ed anche di conflitto - ciò che condiziona effettivamente e molto concretamente le nostre vite e altrettanto (se non più) farà con quelle dei nostri figli.

In epoche precedenti, le gesta di re ed eserciti, l'esito delle loro guerre erano “grandi” avvenimenti dei quali solo una vaga eco arrivava alle piccole comunità locali nel cambio di nome del comunque sconosciuto destinatario al quale dover pagare lo stesso tributo e quanto alle calamità ancora più grandi, come le epidemie di peste, non si poteva altro che pregare la benevolenza degli déi, ma si sapeva che effettivamente questa era l'unica cosa possibile da fare, sia per i poveri, servi della gleba, che per i ricchi e i “gentili”.
Più avanti le lotte per la repubblica, per le costituzioni ed il suffragio universale hanno portato all'attuale uguaglianza di diritto - sebbene tuttora spesso non di fatto - tra tutti i cittadini. Ma, nel contempo, in questo mondo globalizzato e nell'affermarsi del capitalismo consumista come istituzione totale sulle nostre vite, lo sviluppo di grandi sistemi economici transnazionali, di tecnologie che hanno rivoluzionato per noi le dimensioni di tempo e di spazio e l'affermarsi dei nuovi mezzi di comunicazione con una tendenza potente all'omogeneizzazione culturale dell'umanità, hanno fatto sì che - a differenza che nel passato - i grandi fatti di portata planetaria sono entrati sempre più a fondo nelle singole vite quotidiane di tutte le persone. Che queste ne siano consapevoli o meno. Il risultato di ciò è che oggi possiamo discutere e votare su molti piccoli dettagli, ma, nel frattempo, l'impronta generale, il contesto di fondo all'interno del quale si svolge la nostra vita, procede seguendo meccanismi che partono da centri di potere che stanno molto oltre la portata della nostra “sovranità democratica”, luoghi sui quali anche i nostri eletti possono ben poco - seppure volessero agire.
D'altra parte siamo noi stessi ad alimentare e sostenere tali meccanismi, ma soprattutto in modo inconsapevole, in modo non-politico, attraverso (non)scelte che torniamo a ripetere quotidianamente, attraverso innovazioni a cui di anno in anno ci adattiamo (talvolta pure con iniziale entusiasmo) e che - in tempi sorprendentemente brevi - ci abituiamo ad accettare come una irrinunciabile necessaria normalità subito superata da nuove innovazioni.
Questa inconsapevole accettazione, la (non)scelta di questo adeguamento silenzioso, ma progressivo e costante, ci lega sempre più a multiplo filo ai meccanismi dell'economia e di una cultura-non-cultura mediatica e commerciale globale rispetto alla quale il potere della nostra sovranità e partecipazione democratica può - nella migliore delle ipotesi - qualcosa solo quanto a singoli dettagli dell'apparenza, ma non della sostanza.
I fili con cui questo sistema ci avvolge, infatti, son ben più forti e ben più tentacolari di qualcosa che possa essere cambiato da un voto e perfino da delle leggi e non ci legano solo sul piano delle opinioni e delle scelte razionali (magari fosse così), ma su quello ben più sottile e potente della nostra stessa percezione della vita, di noi stessi, di ciò che è reale e possibile e di ciò che non lo è. Se il capitalismo consumista può esser definito l'istituzione totale in cui viviamo è perché riesce a coprire tutte le angolazioni del nostro orizzonte: a non farci vedere oltre perché a non farci neanche immaginare oltre. Funziona con l'efficienza che avevano le religioni o le superstizioni in contesti premoderni: una definizione ultimativa di realtà; definizione interiorizzata e pertanto efficiente anche in chi non ne è consapevole. In questa, il principio scientifico che informò le origini della Modernità si è corrotto ormai in un “realismo” triviale, nel disincanto di chi taccia di “utopia” da sognatori qualsiasi ricerca di alternative sia pratiche che teoriche. Chi pensa in questo modo cerca una via d'uscita dalla palude seguendo lo stesso sentiero che vi ci ha condotti. Tale è la sua fede in questo sentiero di “progresso” da renderlo certo che, ancora più avanti, esso dovrà portarcene fuori. Ma non si accorge che il sentiero si è ormai perso, perché non siamo alla palude come ad una tappa intermedia su un percorso diretto ad una méta necessaria, bensì perché le acque ci son cresciute intorno da più parti man mano che camminavamo. Non è una fase del percorso nel nostro sentiero sacrosanto scritto nelle stelle, non c'è alcun dio che ha previsto per noi un'inevitabile escatologia di civiltà alla fine di questa “Storia” che ci siamo inventati, né c'è alcun lieto fine assicurato perché questo non è un film: siamo noi che, tutti intenti a non lasciare il sentiero, abbiamo dimenticato di vedere tutto il resto che ci circondava, di prenderci cura delle acque che avevamo sempre saputo governare finché ancora facevano parte del nostro mondo e il nostro del loro.

Per tornare ai potenti e alle loro ragioni, c'è anche da dire che spesso la gente vuole pure tutto e il contrario di tutto, vuole cose difficilmente conciliabili fra di loro: la pace nel mondo e materie prime e petrolio a buon mercato; un ambiente sano e pulito senza diminuire il livello dei consumi; la quantità, ma pure la qualità però a basso costo; la democrazia in un paese sviluppato senza l'impegno e l'approfondimento almeno sufficienti a sapere su cosa votare….. per fare solo qualche esempio generico.
Ciò che abbiamo di fronte, in effetti, è che i paesi di maggior successo e che danno la linea per tutti gli altri, nella fase storica in cui siamo, sono o schiettamente non democratici (come la Cina) o con una democrazia alla quale partecipa una minoranza della popolazione (come negli USA dove va a votare meno del 50% degli aventi diritto). Anche sul piano economico i paesi emergenti, quelli che mostrano maggior dinamismo e che sembrano meglio adattati - o che riescono a raccogliere i più evidenti vantaggi di crescita - nel contesto attuale sono soprattutto quelli asiatici, nei quali la cultura pragmatica e collettivista non fa percepire come un gran problema quello che a noi appare come un deficit democratico, fintanto che le opportunità di sviluppare la propria condizione materiale continuano ad accrescersi.
A volte verrebbe malignamente da chiedersi se l'Occidente non spinga i governi dei paesi emergenti verso l'adozione di democrazia e legislazioni sui diritti umani al fine che anch'essi debbano confrontarsi con tutti i problemi di efficienza ed agilità del sistema economico che da ciò deriverebbero, più che per un genuino interessamento riguardo le libertà delle popolazioni locali. Sembra quasi che la democrazia venga ad essere un handicap da riequilibrare di cui soffrono le economie sviluppate sul piano competitivo (figuriamoci poi se dovessero davvero rispettarla anche negli affari che fanno all'estero!).
C'è dunque da temere che, in questa accelerazione progressiva della competizione globale con mercati sempre più saturi ed attori sempre più numerosi, gli spazi di democrazia sostanziale, effettiva anche per quanto riguarda le questioni che davvero danno forma alla nostra vita, siano destinati a ridursi sempre di più. E c'è anche il rischio che questo sarà un processo che verrà accettato senza troppi scossoni da parte dei più: che davanti all'alternativa tra meno ricchezza e consumi (oltre che presunta sicurezza) e meno libertà di decidere del modo e del contesto in cui vivere la propria vita, si preferirà la seconda opzione - anche perché, tanto, le alternative realmente praticate dalle persone quanto allo scegliere come vivere la propria vita si saranno già da tempo notevolmente uniformate.

Per chi ha a cuore la democrazia e la partecipazione paritaria popolare nell'autodeterminazione di ogni paese sovrano come un elemento di autentico progresso fra le tante cose che la Modernità ha spacciato come tali, una profonda riflessione è all'ordine del giorno su cosa significa oggi democrazia e in che contesto questa sia la forma di governo più appropriata, possibile e praticabile, in che condizioni minime questa sia da considerarsi effettiva o solo formale.
C'è chi di fronte a queste domande risponde che, col mutare dei tempi, anche il significato di democrazia è soggetto a mutare e che quindi questa è la democrazia reale e l'unica possibile nelle condizioni date attuali - che dunque questa così com'è sarebbe piuttosto da difendere e da esportare piuttosto che da criticare col rischio di indebolirla e finire per avvicinarci ad altre realtà considerate come più arretrate.
Può anche darsi, però - a parte il fatto che una ben strana democrazia sarebbe quella in cui diventa prioritario evitare le critiche all'interno e difenderne il primato all'esterno - allo stesso modo si può dire che, col mutare dei tempi, anche il significato di dittatura è soggetto a mutare e che quindi il modo in cui un sistema totalitario che tende a non lasciare vie d'uscita si presenta oggi è molto diverso da ieri, più sottile, più dissimulato (perfino travestito si potrebbe dire) tale da legare le persone più col denaro ed il culto dell'immagine che con la violenza, basato sul consenso, ma un consenso al quale viene via via resa sempre più impraticabile ogni alternativa.
C'è anche chi ha un approccio più tecnico e si chiede quale potrebbe essere il sistema elettorale che assicuri la più autentica rappresentatività degli eletti o il più efficiente o il più comprensivo dei più diversi punti di vista e chi, con maggiore radicalità, punta l'attenzione su diverse declinazioni del concetto di democrazia, altre da quella rappresentativa, quali quella assembleare, quella diretta ecc…
Naturalmente queste questioni tecniche hanno il loro peso e c'è sempre modo di migliorare qualcosa - come pure al peggio non c'è mai fine, anche se noi, col sistema attualmente vigente in Italia, penso siamo abbastanza vicini al fondo. Però le condizioni globali che ci fanno sentire vicini ad un limite critico di “ambiente vitale” adatto per la democrazia richiedono una revisione ben più profonda di ciò che ci ha portato a questo punto.

Il punto centrale è che non è l'essere umano che deve farsi a misura di un sistema, ma è il sistema che deve essere a misura d'uomo. E che, siccome l'essere umano è limitato, non qualsiasi sistema e non sistemi di qualsiasi dimensione possono essere “a misura d'uomo”.

Ora, finché le cose che veramente contavano nella vita delle persone e delle comunità e le dimensioni delle comunità stesse, i sistemi economici, sociali ecc… che le sostenevano e le strutturavano erano alla portata di comprensione, di percezione, di identificazione da parte della generalità delle persone che le componevano, queste erano in grado di autogovernarsi e, al livello locale (intendo di villaggio o di quartiere) la partecipazione alle decisioni da prendere o un qualche peso su di esse sono sempre stati possibili per la generalità dei componenti la comunità, anche - e forse più - in epoche e condizioni premoderne.
La Storia che studiamo a scuola ci riporta tutt'altro: società in cui pochi re, nobili, papi e condottieri stavano lì a decidere tutto e a dare il verso al destino di popoli inermi. Questo è sempre stato probabilmente e, in questo senso, si potrebbe dire che ciò che avviene oggi ne è, nella peggiore delle ipotesi, una continuazione e non un peggioramento e che, anzi, almeno fino a un certo livello, oggi il controllo democratico investe le sedi decisionali molto più di ieri. Ed anche questo è innegabile.
Ma, per avere un quadro completo e fedele della realtà bisogna mettere la nostra visione delle cose un po' più a fuoco e guardarle un po' più da vicino: bisogna vedere ciò che veramente fa la vita delle persone. E, da questo punto di vista, molto di ciò che rimane sui nostri libri di Storia aiuta sì a rileggere le tendenze trasformative in una chiave che gli dà un senso a posteriori - il che è utile agli storiografi - ma non necessariamente per questo era percepito nell'esperienza delle persone dell'epoca né dava concretamente forma alle loro vite. Ciò che lo faceva, invece, era spesso una quotidianità dimenticata dalla Storia - tranne forse che da quella studiata da alcuni specialisti di Storia Sociale o campi di ricerca analoghi. Una quotidianità tanto dimenticata quanto il controllo che di essa avevano le persone che la producevano direttamente nel loro viverla, come ne producevano gli attrezzi d'uso ed i miti e simboli di riferimento. Oggi non ci si rende sufficientemente conto che per la stragrande maggioranza delle persone fino a non molti decenni fa i fatti che studiamo oggi nella Storia non erano quasi mai importanti come lo era l'andamento del raccolto, una faida tra vicini, un mercato, una festa o, semplicemente, lo scorrere delle giornate e delle stagioni con la loro concatenazione di eventi umani e non. Né ci si rende conto di quanto importante fosse il grado di intervento e di controllo possibili da parte (a vario titolo e in modi diversi secondo la posizione e il ruolo) delle persone, poveri e ricchi, maschi e femmine, membri di una comunità locale sul corso che prendevano gli eventi interni o direttamente attinenti la comunità stessa.
Tanto questi microeventi quanto questo micropotere oggi sono dimenticati dalla Storia quasi non fossero mai esistiti, ma la realtà vissuta è sempre stata infinitamente più complessa di quanto possa entrare nei libri di Storia, specialmente quando la vicinanza e la condivisione di ambiti spaziali/ambientali, economico/produttivi, socio/culturali rende diretto il contatto fra i diversi attori dell'intero quadro. Ed il fatto che alcuni abbiano titolo ad intervenire in modo esplicito e formale ed altri debbano farlo per vie meno aperte e visibili o più indirette non comporta che i secondi ottengano necessariamente meno effetto dei primi.
Il piccolo ambito direttamente circostante sul quale, formalmente o informalmente, i membri di una comunità avevano ampi margini di gestione e di controllo era qualcosa di irrilevante per chi avrebbe scritto le analisi ex-post su quel periodo storico, ma per le persone che ci vivevano era la loro vita e, forse perché molti di loro non leggevano e ancor meno vedevano la tv, questo bastava - anche se poi nessuno ne avrebbe fatto un film né a nessun film di successo avrebbe potuto assomigliare. Trasportati passivamente dalle decisioni dei potenti, dunque - tranne in casi particolari come una chiamata in guerra - non lo sono stati come individui, bensì come classe sociale (che a tali “grandi” decisioni non aveva accesso) ma neanche come tale finché la visione “storica” e “sociale” delle cose non si è imposta nell'immaginario collettivo. Nella percezione delle persone, prima, non c'era questa “Storia” che stava facendo il suo corso attraverso le “società”, nella quale si doveva partecipare ed essere presenti con un ruolo attivo e conquistandosi una certa misura di quel tipo di potere che storiografi e sociologi avrebbero potuto rilevare, pena, sostanzialmente, il non esistere. C'era invece, al livello della comunità locale, il proprio piccolo mondo di cui si aveva percezione diretta e che si comprendeva e in gran parte si controllava nei suoi meccanismi dal percorso sostanzialmente ciclico.
Queste infinite piccole realtà ci appaiono insignificanti solo perché oggi sappiamo vedere solo questo fantasma della Storia che si trascina dietro il mondo nella sua corsa verso il progresso facendo scomparire nel suo solco tutto ciò che da questo punto di vista è irrilevante. Ma, finché il capitalismo industriale, la Modernità e questa visione sociologica, parascientifica, dell'esistenza umana non si erano ancora affermati, irrilevante era la Storia per le comunità locali di villaggio e per la loro vita plurisecolare che oggi noi collochiamo in una sorta di buio ignorante che si presume dovette precedere l'alba del progresso.

Queste ormai “irrilevanti e superate” cellule sociali erano dotate di quella che Vandana Shiva chiama “Libertà Ecologica”. Funzionavano cioè in base ad uno specifico adattamento all'ambiente in cui vivevano e producevano la propria sussistenza con una tecnica, una tecnologia, economia, struttura sociale e cultura peculiari tramandate ed affinate nelle generazioni chiamate unitariamente “tradizione”. E su questa forma di adattamento fondavano la propria autonomia di fatto sebbene non di diritto. Dal punto di vista macropolitico (quello della “Storia”) non avevano alcuna vera sovranità: erano in stato di totale sudditanza al potere centrale. Ma, nei fatti, esse potevano benissimo sopravvivere - ed infatti sopravvivevano - senza grosse scosse quando questo potere centrale fosse collassato. Questo era possibile perché i grandi (e lontani) fatti della politica si muovevano su un piano molto diverso da quello sul quale avveniva la produzione e riproduzione delle microsocietà umane. Questo tranne per una limitatissima elìte metropolitana proprietaria dei mezzi di produzione industriali.
Questa “Libertà Ecologica” ha trovato la sua fine quando le radici agricole con cui le comunità producevano autonomamente la propria sussistenza sulla quale avevano di fatto il controllo sono state estirpate e sostituite con la dipendenza dal denaro e dal lavoro salariato. L'evoluzione del capitale ha fatto il resto trascinando la massa della gente nei suoi meccanismi, trasformandola prima in classe operaia e via via fino ad oggi essenzialmente in consumatori che (collateralmente) devono essere in parte anche produttori secondo necessità.

Ciò che rende questionabile quanto spazio reale ci sia oggi per una vera sovranità popolare (demos-kratos) non va visto solo (dal basso verso l'alto) in termini di fino a quali livelli decisionali i potenti siano al posto che occupano in seguito ad elezioni democratiche (il che è già molto problematico), ma anche (dall'alto verso il basso) in termini di quanto meccanismi immensi, globali, impersonali, spesso fuori controllo per chiunque e certamente molto al di là della portata anche solo di comprensione della generalità delle persone, diano oggi forma in modo diretto e sostanziale alle loro vite.
In altre parole, se una volta potevamo decidere poco delle questioni inerenti la politica nazionale, ma anche le decisioni in merito a questo ci toccavano in realtà solo limitatamente, oggi possiamo decidere nulla degli immensi movimenti dei capitali finanziari globali - e spesso neppure ne siamo a conoscenza né avremmo gli elementi per spiegarceli - ma siamo immediatamente colpiti dalle conseguenze di tali movimenti - e questo, ovviamente, non è che un esempio fra i tanti possibili degli immensi meccanismi globalizzati che hanno effetto immediato sulla condizione di tutti.
In altre parole, ciò che restringe gli spazi di autentica democrazia nelle nostre società non è solo quanto poco il meccanismo rappresentativo arrivi a far valere la sovranità popolare (almeno della maggioranza, magari relativa - e senza entrare qui nel merito di come si fa a formare questa maggioranza) sulle sedi in cui si fanno le scelte più decisive, ma anche quanto meccanismi sui quali non possiamo avere alcun controllo abbiano effetti sostanziali su tutti noi nella vita di ogni giorno. Da un lato vediamo fino a dove il sistema può permettere (o comunque permette) alla democrazia di arrivare, ma dall'altro dobbiamo anche vedere fino a dove permettiamo noi alla non-democrazia di occupare spazio nelle nostre vite ovvero quanto noi leghiamo queste a meccanismi la cui ragion d'essere non è quella di perseguire il bene collettivo, ma il profitto privato e che per loro natura non possono essere democratici in quanto necessariamente sfuggono al controllo e perfino alla comprensione della gente comune (e forse non solo a questa) e pertanto alla sovranità popolare.
Questo secondo lato della questione è cruciale perché, se per il primo bisognerebbe prima capire quale potrebbe essere il sistema politico ed elettorale migliore nelle condizioni attuali e poi realizzarlo attraverso una serie di riforme a livello sia nazionale che internazionale, vedendo le cose sotto il secondo aspetto ci è possibile - molto democraticamente (tipo, una testa un voto) - partire da noi stessi. Va anche aggiunto che queste riforme andrebbero fatte dagli stessi politici che si sono finora avvantaggiati degli ordinamenti da superare e che è tutto da vedere quanto interesse abbiano a farlo. Ma, ancor peggio, oltre a ciò bisognerebbe coinvolgere in tale ristrutturazione democratica anche le centrali decisionali - che sono in ultima analisi private - dell'economia e della finanza mondiale (sulla qual cosa è sufficiente dire che sarebbe impossibile senza dilungarcisi troppo).


Io credo che se vogliamo la democrazia dobbiamo in primo luogo “abitare” una dimensione che garantisca un “ambiente vitale” adatto ad essa. Ovvero dovremmo far sì che di fatto ancor prima che di diritto le cose strutturalmente (e quindi in primo luogo economicamente) portanti nella nostra vita si svolgano (quindi si producano, circolino e si consumino) all'interno di ambiti che siano alla nostra portata come comunità locali sia in termini geografici che di complessità di sistema.
Riconvertire l'economia e la società a queste dimensioni gestibili e controllabili in cui sia possibile la verifica diretta dell'operato degli eletti (e magari anche la loro conoscenza personale) è qualcosa che può gradualmente essere attuato da ognuno di noi riconvertendo il proprio stile di vita e la propria economia personale/familiare.

Non è necessario per questo che la società si disgreghi e si atomizzi o che si sprofondi in un oscuro “medioevo” di microtribù chiuse e reciprocamente sospettose in potenziali faide croniche ed endemiche (e chissà poi se il medioevo è stato davvero così?). Non discende necessariamente da questo che debbano scomparire istituzioni di portata nazionale ed internazionale e perfino mondiali, né che ci si debba disinteressare se queste abbiano un ordinamento relativamente democratico o meno.
Il punto è radicalmente un altro (e può anche procedere parallelamente con l'interesse per un piano più propriamente tecnico-politico che si occupi delle possibili riforme: le due cose non sono necessariamente in antitesi). Ed è: quanto le questioni gestibili solo dall'alto pesano in concreto sulla nostra vita ovvero quanto questa è o meno legata strettamente ai sistemi globalizzati ed a strutture e tecnologie ingestibili a livello locale. Questo è il punto e sta in ultima analisi a noi lasciare più o meno spazio nelle nostre vite a forze che non possiamo controllare, sta a noi scegliere quanto essere o meno dipendenti da queste.
E' chiaro che, se vogliamo affrontare la sostanza della questione, si tratta di farlo in primo luogo sul piano strutturale ovvero economico, nel senso di quello dal quale produciamo la nostra sussistenza, realizziamo una forma di interazione con l'ambiente, affiniamo un determinato tipo di tecnologia funzionale, organizziamo interazioni sociali e quindi un modello di società e concepiamo un senso in tutto ciò creando così una cultura. Ma è solo a partire dal livello di base che la costruzione di una diversa realtà può prodursi - mentre è una comoda illusione utile al sistema l'idea di poter fare il percorso inverso.
E non è necessario che l'apparato politico-istituzionale che sta al di sopra di questa realtà nascente debba essere abbattuto. Ripeto: il punto non è l'esistenza di centri di potere sia politici che economici in grado di stabilire le loro regole, ma quanto bisogno abbiano (o credano di avere) le persone di adeguarvisi ovvero di inserirsi nelle strutture che secondo quelle regole (e solo secondo quelle) debbono/possono funzionare.
E' chiaro dunque che la questione centrale diventa da un lato il contesto locale (che implica altrettanto una concezione non usa-e-getta dell'interazione con l'ambiente specifico in cui ci si trova, dunque una prospettiva di durata e sostenibilità) e, dall'altro, la via maestra del “piccolo è bello”, delle attività economico-produttive su piccola scala, del basso impatto ambientale, del riciclo, dell'artigianato e soprattutto dell'autoproduzione contadina.

Comunità locali che si riformassero a partire da un numero sufficiente di persone che riconvertissero le proprie vite/economie secondo un tale modello creerebbero naturalmente un contesto socio-politico che potrebbe essere gestito in modo genuinamente democratico per il fatto stesso delle sue dimensioni e della sua struttura interna - al di là di quale sistema elettorale- decisionale venisse adottato dal punto di vista tecnico. E, seppure molte decisioni rimarrebbero nelle mani di istituzioni più grandi, così come la gestione dei sistemi che superano necessariamente l'ambito locale, il baricentro del sistema verrebbe a trovarsi alla base (che, alle strette, potrebbe anche sopravvivere e funzionare abbastanza bene senza tutto il resto) anziché, come avviene adesso, ad un vertice dalla posizione poco collocabile a cui tutto sembra essere appeso, sospeso su un futuro sul quale non abbiamo nessun controllo in un presente in cui ci illudiamo di averlo.

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