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UNA PREMESSA "LINGUISTICA" In questi scritti ci sono ci sono alcune anomalie di stile e di linguaggio rispetto all'uso comune in testi di intento analogo quali pampleth, saggistica, testi filosofici. Ciò è dovuto - oltre senz'altro ad una mia personale insufficienza lessicale e sintattica - al fatto che, cercando di esprimere verbalmente la mia visione della realtà, trovo difficoltà e inadeguatezza nell'usare il linguaggio nel modo consueto. Il linguaggio che usiamo si è costruito e funziona abitualmente in modo corrispondente ad una visione della realtà piuttosto diversa e divergente da quella che cerco di illustrare. Si basa su una idea di realtà sostanzialista, materialista o spiritualista alternativamente, ma non contemporaneamente; oggettivista o soggetto/oggettivista e fondata su elementi fissi (statici e non-viventi nella loro natura di definizione) che compongono realtà circoscritte in modo netto. Non credo - come cercherò di dimostrare - che la realtà sia davvero così: la realtà che cercherò di descrivere, quella in cui credo che davvero viviamo, quella che siamo, è priva in ultima analisi di qualcosa che possiamo definire sostanza o sostanziale. E', oltre la nostra più immediata percezione comune, inscindibilmente materiale ed energetico/spirituale. Per "conoscerla", nel senso e fino al punto in cui ciò è possibile, dobbiamo andare oltre il dualismo soggetto/oggetto e riconoscere che le cose sono vive, non fisse, non isolate (dotate di realtà inerente) e la loro realtà, e la realtà che esse compongono, non è mai permanente né definibile in modo netto ed univoco. Attenzione: non sto dicendo che le cose non siano realmente ciò che sono ed anche in modo molto preciso; sto dicendo che non sono definibili in questo modo: sto parlando del linguaggio. Sto dicendo che le nostre possibilità di descrivere la vera precisa realtà delle cose attraverso gli strumenti della definizione ovvero delle parole e dei concetti, hanno dei forti limiti; definire significa circoscrivere, delimitare: la Realtà è viva e perciò non è veramente definibile. Nondimeno abbiamo bisogno di capire e di capirci, di parlarci, di spiegarci, e dobbiamo lavorare con gli strumenti che abbiamo. Abbiamo (tra le altre cose) i concetti e le parole, ed una volta compreso ed accettato che non possiamo spingerci grazie a loro oltre un certo limite di precisione nella comprensione della Realtà, possiamo e dobbiamo però continuare ad usarli integrando la loro caratteristica di approssimazione nell'uso più efficace possibile che ne facciamo, affinché ci permettano di arrivare al limite oltre il quale vediamo come non possiamo spingerci oltre con le parole (con i concetti, l'intelletto, la conoscenza o la conoscenza che definisce) e come possiamo spingerci oltre al di là di esse. Dobbiamo trovare un modo di intenderci e comunicare superando la deriva nell'astrazione in cui cadiamo nell'inseguire ancora oggi una pretesa neopositivista di oggettività e scientificità nei nostri tentativi di comprensione che così finiscono sempre inevitabilmente per tagliar fuori aspetti decisivi della nostra realtà/esperienza ed esser in contraddizione con essa. Se il nostro intento è davvero quello di comprendere qualcosa di reale, non dobbiamo temere di fare un passo avanti e di usare in modo nuovo, di cercare di aggiornare gli strumenti linguistici/concettuali che abbiamo al fine di renderli più adeguati, realmente utili, al lavoro per cui ci servono, e di includere noi stessi, colui che scrive, in ciò che viene scritto. Non è un discorso senza argomenti né senza tradizioni: da un lato non si può non riconoscere che perfino il linguaggio poetico sia capace di cogliere precisamente certi aspetti della nostra realtà, dall'altro va tenuto presente che la pretesa di poter descrivere la realtà come qualcosa di fin in fondo e per natura, per sostanza, definibile con esattezza, è stata spazzata via fin dall'inizio del secolo scorso dalla fisica quantistica, anche se poi, a vari livelli del sapere, si continua generalmente a parlare usando il linguaggio come se ancora fossimo ai tempi di Newton. Dunque passo a spiegare e cercare di giustificare alcune particolarità di linguaggio che uso in questi testi. In primo luogo, e dato anche che, come di nuovo ci insegna la fisica quantistica, l'esperimento è condizionato comunque dallo sperimentatore, parlo in prima persona: in primo luogo perché non do per scontato di non essere l'unico ad aderire alle idee che esprimo; sono le mie, in cui credo, e le presento in quanto tali. In secondo luogo perché sono e vogliono essere intrinseche ad un vissuto personale, che è il mio, il che credo sia un elemento in più e non in meno, non solo di coerenza, ma di verità e di chiarezza. E in terzo luogo perché non sono un paladino del pensiero debole. Credo che non ne sia più il tempo e, del resto, sia detto per inciso, mi pare che il pensiero debole in quanto tale dovrebbe fare del tutto a meno di paladini, anche se poi se ne trovano molti che si candidano a questo ruolo, totalitaristi del relativismo che chiamano sé stessi laici per darsi un'aria vagamente politically correct mentre scorrettamente brandiscono la bandiera del pensiero debole come una clava e vorrebbero imporla al mondo mettendo in ombra anche coloro che di un autentico pensiero debole si sarebbero sinceramente accontentati. Parlo in prima persona perché mi assumo la responsabilità di andar cercando tutt'altro: credo che oggi quanto mai serva un pensiero forte, niente meno che una nuova ideologia, una nuova welthanshauung, quasi una nuova religione. E non voglio nascondere che (almeno nella sostanza - spero che il lettore sappia distinguerla dai dettagli non imprescindibili dove esprimo anche opinioni contingenti o comunque secondarie) personalmente considero le cose che presento in questi scritti come la verità, il modo in cui le cose sono realmente di per sé, non una mia opinione. Sì, caro lettore, hai capito bene, ho detto proprio così: è ciò di cui sono convinto. Ma non preoccuparti: non c'è delirio di onniscienza né stai leggendo l'opera di un potenziale dittatore. Nell'usare la prima persona intendo al contrario esprimere un atteggiamento di umiltà: mi metto davanti al lettore da uomo a uomo ( o da uomo a donna, secondo i casi ), come uno che spiega come lui vede il mondo, convinto, ma senza aspettarsi che l'altro prenda le cose che dice come qualcosa più che opinioni, anche improbabili eventualmente, a meno che non sia egli stesso, seguendo attentamente il percorso teorico che propongo e confrontandolo con la propria esperienza a riconoscervi della verità. Non mi aspetto altro, ma voglio pormi con il mio discorso ed il mio intento chiaramente per quelli che sono, ponendomi io come qualcuno che, oltre a scrivere, è. L'elemento di umiltà sta nel non nascondersi dietro un plurale che servirebbe a rappresentarmi abbastanza asetticamente come una pura voce portatrice di pensieri, di parole, mentre sono invece tanto fisico, complesso e contraddittorio io ora mentre scrivo quanto lo sei tu ora mentre leggi: ci incontriamo sulle parole, che sono fuori dal tempo, ma la nostra vera realtà è sempre il momento presente qui ed ora - ed è al di là del nostro Io. Le stesse parole che io scrivo e che tu leggi, quale pronome useresti per chi le pronuncia ora? Non sempre la realtà delle cose è così univoca da definire. E' per questo che in questi testi si troveranno spesso cose/concetti espressi usando, come appena fatto, più parole affiancate da / . La realtà è molteplice e sfaccettata, ogni cosa ha più aspetti ed esiste/funziona a più livelli contemporaneamente. Non possiamo vederli e prenderli in esame tutti e neppure ciò ci servirebbe sempre per il nostro ragionamento. Ma è altrettanto vero che a volte trovo indispensabile per ciò che vado esprimendo, considerare una data cosa come attiva, efficiente e significante su vari piani e sotto vari aspetti insieme. Questi concetti espressi con più parole e /, però, vanno intesi non nel senso che una cosa è questo e anche questo e anche questo parallelamente e nemmeno in successione dialogica: vanno presi piuttosto come fossero cristalli che appaiono con più facce e da più facce emanano la propria luce significante. Ciò che tiene insieme le diverse facce ( il cui legame di integralità può essere spesso facilmente intuitivo, ma a volte anche apparentemente contraddittorio ) non va cercato sul piano formalmente logico ( non tanto perché non ce lo si possa per principio trovare, ma soprattutto perché ciò richiederebbe lunghe e non essenziali argomentazioni), bensì su quello dell'esperienza diretta di ogni lettore al quale affido, appunto, questi "cristalli". A volte, e forse nei casi meno intuitivi, uso questa forma a / per definire (se così si può dire ) una "dimensione", anziché una cosa o un fenomeno. Sia quando definito in questo modo che altrimenti, mi sembra necessario precisare cosa intendo spesso con "dimensione", sebbene si tratti di una parola da molti usata in questo stesso senso nel linguaggio corrente, dal quale, peraltro, trovo utile, quando opportuno, attingere essendo qualcosa di molto vicino alla nostra realtà vissuta. Con "dimensione" intendo quell'insieme di condizioni sia pratiche che psicologico-esperienziali in cui ci troviamo (o in cui si trova il soggetto del discorso) nello svolgersi delle funzioni caratteristiche che sono il vivere di un dato genere di fenomeni intesi sia in senso interno che esterno a noi (o al soggetto medesimo). Per farmi capire meglio in una proposizione di questo tipo credo sia meglio precisare anche il significato che do in questo caso ai concetti di condizione, psicoesperienziale, funzione, vivere. Condizione : Mentre per "dimensione" intendo qualcosa di soprattutto esistenziale, che appartiene all'esperienza, al vissuto, qualcosa che attiene più all'aspetto dinamico, in divenire, che rimanda all'atteggiamento di fondo ai vari livelli soggettivi con cui ci si dispone ad una situazione, qualcosa che volutamente non mette a fuoco una situazione in modo definito, con "condizione" intendo qualcosa di abbastanza simile ma inteso in senso più statico e permanente o almeno fotografato in un dato momento/assetto/situazione, e più definito, oltre che più legato alla dimensione materiale ed oggettiva, meno volatile, anche quando mi riferisco a stati o fenomeni interiori quali, in questo caso, atteggiamenti psicocaratteriali che abbiano un qualche radicamento e che determinino l'approccio di un soggetto. Mentre la dimensione è qualcosa di poco definito in cui ci si proietta e che si svolge in un divenire visto soprattutto al livello dell'energia e del vissuto soggettivo, la condizione è in modo più dato, la condizione di base nella quale ci si trova o dalla quale si parte e che si percepisce in una forma più oggettiva e più legata al piano della materia e della visione oggettivizzata della propria condizione soggettiva. Psicoesperienziale : il piano dell'esperienza che include una componente psicologica, che contiene un aspetto psicosomatico, è più automatica, inconscia e legata ad esperienze passate ed è incentrata sull'ego, ed una esperienziale, più inerente al momento presente nel quale non è definibile ( solo a posteriori, ma allora è un'altra cosa ), non sganciata né dal corpo, né dall'ego, né dalle proprie abituali reazioni caratteriali, ma anche al di là di questo ed in parte al di là della dicotomia soggetto/oggetto. I due aspetti sono espressi in una sola parola in quanto funzionano come parti di un unico fenomeno in un essere vivente di cui sono componenti. Funzione : cerco di descrivere le cose in termini di funzione piuttosto che di oggetti o elementi sostanziali. La funzione è qualcosa di un po' diverso dal funzionamento: quest'ultimo è il funzionamento di qualche cosa, c'è qualcosa, o più cose, e c'è il suo/loro funzionamento, mentre parlando di funzione cerco di esprimere il fatto che ciò che c'è è la funzione, e parte - o un aspetto, un elemento - di essa è la, o sono le, cose che agiscono. Gli elementi del sistema dinamico non sono veramente oggetti in movimento, ma sono il movimento stesso in una delle sue forme. Che si tratti di forme che hanno una loro singolarità, che sono definite, non è in contraddizione, ma al contrario fa parte del fatto che non dico semplicemente "movimento" ma dico "funzione". Non si tratta di un movimento casuale e neppure indifferenziato: si muove in un certo modo articolandosi in certe relazioni tra le diverse forme interne che prende, ovvero gli elementi di cui è composto, se vogliamo vederlo dal punto di vista di questi ultimi. Non è un punto di vista meno reale, solo che si possono vedere le cose a cerchi concentrici ovvero a diversi livelli di realtà e vedere le cose in termini di funzioni ( su questo vedi anche Reich ) permette di coglierne la dimensione di sistema complessivo, andare oltre una visione egocentrica o individuocentrica, oltre la visione dualistica basata sugli opposti e tenerne costantemente presente la natura perennemente dinamica. Vivere : essendo la natura di tutte le cose senza eccezione dinamica, ovvero impermanente, mutevole e con ciò non singola, non dotata in ultima analisi di esistenza separata, indefinibile, non descrivibile, né esperibile, né esistente solo come idea o concetto o immagine né mai del tutto neutra, essendo la natura di ogni cosa non estranea al mondo/dimensione/esperienza vivente in cui vive la nostra vita, essendo inoltre un errore superare l'idea di sostanzialità delle cose considerandole come "funzioni" per poi sostanzializzare la funzione attribuendogli concettualmente un'esistenza in termini fissi e oggettivi, io non dico che le cose sono, o che la realtà/Realtà è: la realtà vive. Quando voglio esser preciso riguardo alla vera realtà delle cose elimino il verbo essere ed uso vivere. Non si tratta (bé, insomma, . non solo ) di non esser capaci di scrivere più chiaramente e dunque concedersi la libertà di reinventarsi alcune espressioni linguistiche a proprio piacimento lasciando agli altri l'onere di capirci qualcosa. Il problema è che la visione del mondo che cerco di rappresentare, come si vedrà in seguito, attinge nei suoi aspetti filosofici a piene mani da tradizioni di pensiero perlopiù orientali, con particolare attenzione al Buddhismo e specialmente allo Zen (ma tenendo presenti anche alcune teorie sulla realtà della fisica contemporanea) il che rende inadeguato il nostro linguaggio abituale. In realtà, quanto al mio tentativo di comunicazione sul piano filosofico, mi muovo sullo scivoloso terreno di un paradosso: cerco di essere il più preciso possibile nell'esporre una descrizione della Realtà che ha al suo centro il fatto (non la nozione, ma il fatto) che la Realtà non è definibile ed è al di là delle parole e dei concetti. Nondimeno credo che il lavoro di un intelletto ben affilato possa essere un utile strumento per aiutarci a spingerci avanti verso la comprensione che non esiste un capello di distanza tra noi stessi e questa infinita Realtà anche se poi dobbiamo necessariamente andare oltre questo strumento limitato per ritrovarci al di là di questo capello che non c'è. Il problema è che il nostro linguaggio è fondato sul sillogismo di Aristotele, il principio di identità e di non-contraddizione: se A è A, è diverso da e non può essere B. Il problema è che tutto il nostro parlare e interrogarci sul piano esistenziale ha preso forma nel ruotare intorno al quesito fondamentale di Amleto: "essere o non essere?". In effetti, con un linguaggio che voglia essere davvero esatto, da questi limiti, come diceva bene Wittgenstein, non si esce. Ma la conseguenza che io ne traggo, personalmente, non è che allora "di ciò di cui non si può parlare, conviene tacere". Non almeno non prima di esserci avvicinati un po' di più con un uso diverso delle parole. Accetto, volendo avventurarmi un po' più avanti su questo scivoloso e paradossale terreno sul quale "converrebbe tacere", l'inevitabile approssimazione di ogni discorso. Ma so anche che, pur mentre cerchiamo di distillare lucidità intellettuale dalle nostre menti, mai smettiamo di essere anche "anima", sensibilità e corpo, e so che nell'intellettuale innamorato della razionalità batte un cuore sul quale i concetti vibrano e comunicano il proprio contenuto anche al di là della pura linearità logica. So, anche, che nell'affrontare una teoria, tutti, se siamo minimamente accorti, la confrontiamo anche con la nostra esperienza di vita, che non è qualcosa di confinato nel mondo delle parole. Per cui, pur cercando di sezionare concetti e fenomeni fino al loro cuore con una lama intellettualmente affilata, mi affido anche al fatto che, sebbene dal centro di questo cuore non potrò estrarre alcun oggetto precisamente definibile da proporre al lettore, sarà il lettore che, seguendomi nei vari passaggi del cammino ( paradossalmente ) verbale, avrà via via imparato a capire il mio linguaggio e vedere la luna che il mio dito gli indica. Per giungere a quel punto mi servirò di approssimazioni verbali come quelle a / e vocaboli usati in modo analogo a quelli descritti prima che vanno intesi (funzionalmente ovvero non quanto a ciò che sono ma per la funzione che svolgono in questo contesto) in modo simile a ideogrammi. Come per gli ideogrammi cinesi, che accostano due immagini simbolo a renderne una più complessa, non ci si può trovare un significato univoco, che ne escluda ogni altro, nondimeno sono da moltissimo tempo un valido sistema di comunicazione. Io cerco di comunicare immagini mentali, più precisamente immagini intellettuali, non immagini veramente infatti: non si compongono né di suggestioni immaginifiche (non di solito almeno) e non si muovono su quel piano: son fatte di concetti e rimangono sul piano del logos, non del pathos, ma, nella loro relativa vaghezza o inafferrabilità, nella loro circolarità piuttosto che linearità, circoscrivono un'area di significato e di comprensione che, letta attraverso la propria esperienza quanto attraverso il proprio intelletto, vorrebbe essere lo spazio per l'intuizione di un tratto di realtà che, in quanto tale, è al di là delle parole. Non si tratta infatti del logos che crea il mondo. Non credo che qualcosa del genere esista: strettamente parlando le parole creano solo illusioni, noi non possiamo creare nulla, in quanto non c'è niente da creare, mentre non facciamo altro che partecipare alla generale trasformazione continua che avviene nel mondo. Parte, del tutto irrilevante per il mondo, di quest'ultimo, ma a volte utile e necessaria (ed altre pericolosa e distruttiva) per noi sono le nostre illusioni al cui campo appartengono il logos e le parole. Quindi con le parole ci muoviamo sempre e comunque su un piano che rimane, più o meno, staccato dalla realtà, non dobbiamo dimenticarcelo mai. Con le parole abbiamo delle forbici con le quali nel mare delle nostre percezioni delimitiamo degli aspetti. E via via cercando e seguendo intuitivamente il "perimetro" della realtà, ritagliamo progressivamente l'involucro di illusione con cui la circondiamo con quella che pretendiamo essere la nostra conoscenza. Finché non ne rimane più nulla di solido; deponiamo le forbici (parole, logos) e siamo pronti per ritrovare la Realtà. Ciò che il logos crea è illusione, ma una illusione necessaria attraverso la quale dobbiamo necessariamente percorrere tutto il lungo viaggio che ci porta fino ai suoi limiti estremi, per andare oltre e liberarcene. Per poter percorrere questo viaggio con successo e giungere ai limiti estremi, condizione necessaria per oltrepassarli, dobbiamo muoverci correttamente secondo le leggi che valgono in questo mondo del logos. E' il nostro mondo illusorio creato dalla parola per descrivere e conoscere la realtà, per superare vaghezza e contraddizione. C'è necessità di significato e di precisione linguistica nell'esprimerlo, di scegliere i vocaboli, i verbi e perfino le congiunzioni esatte, c'è necessità di capire in termini concettuali, quindi di creare strumenti concettuali adeguati, efficaci nella costruzione logica e nella comunicazione. Bisogna fare del nostro meglio per essere precisi rispetto a questo, altrimenti, nel corso del nostro viaggio troveremo una foresta buia o incantata o delle sabbie mobili, un mare in tempesta, un deserto di dune dalla fisionomia cangiante in cui ci perderemo senza riuscire a superare veramente la nostra impasse. Ma dovremo anche mantenere una certa freschezza di approccio, la "mente del principiante" (vedi Shunryu Suzuki Roshi - maestro Zen), una certa elasticità rispetto al nostro uso delle parole che ci viene dal non-attaccamento ad esse e dal ricordarci sempre lo scopo del nostro viaggio che è quello di raggiungere veramente la Realtà. Altrimenti, sì, non ci bloccheremo mai su nessun tipo di terreno, la nostra dialettica ne saprà sempre uscire e non saremo mai a corto di risorse logiche per andare avanti, ma finiremo, infatuati dalla sottigliezza e dalla complessità del nostro intelletto e del nostro linguaggio, per continuare a girare in tondo all'infinito. Forse passeremo anche vicini ai limiti del percorso, ma saremo incapaci di riconoscerli come tali. Pretenderemo perfino che proprio questa profusione senza fine di logos sia la realtà che ci è propria e che l'errore stia nel cercare qualcosa di più fondante, mentre saremmo allora, in realtà, abbarbicati alla nostra consuetudine con le parole. In questo modo, per paura dell'ignoto e contraddicendo così alla base il nostro intento iniziale di conoscenza (e non per ragioni epistemologiche bensì schiettamente psicologico-caratteriali), perderemmo l'occasione di fare il salto al di là che ci porta nella vera realtà dove, allora sì, non c'è nulla di fisso, ma a un livello e in un modo così fondamentale e fondante che non possiamo coglierlo con le parole e neanche col pensiero. Il lettore troverà, avviandosi nella lettura di questi testi, alcune asserzioni, punti di vista e presupposti dati, oltre che espressioni dal significato poco chiaro, che necessiterebbero di dimostrazione, in quanto a prima vista non accettabili da un punto di vista di volta in volta scientifico, logico, etico ecc D'altra parte il linguaggio che si usa è parte integrante del contenuto che si esprime ed è la prima causa che ci conduce a comprensioni errate della realtà. Perciò preferisco evitare, per quanto mi è possibile, di usare proposizioni, che di fatto ripetono gli errori che voglio confutare, come mattoni per costruire gradualmente la scala che mi porta a dire ciò che effettivamente ritengo corrispondere a realtà. Per questo motivo cerco di dire le cose fin dall'inizio come stanno, usando le espressioni più corrispondenti di cui sono capace, inventandone ad hoc se necessario ( ed inserisco anche un glossario consultabile all'occorrenza). Prego il lettore che vorrà seguirmi su questa strada in primo luogo di rinunciare a leggere ciò che scrivo alla luce di categorie appartenenti ai sistemi di pensiero che già gli sono noti e che (forse) sono tutt'altro che il mio (sebbene apparentemente questo potrebbe somigliargli), e, in secondo, di prendere inizialmente atto di ciò che non gli pare chiaro né sufficientemente argomentato, inizialmente accettandolo limitatamente alla lettura di questi testi, come elementi per procedere. Via via questi si chiariranno e prenderanno forma in un quadro abbastanza completo, condivisibile o meno, ma dotato di una certa coerenza interna, nella quale ognuno di essi mostrerà il proprio posto, significato e ragion d'essere. Almeno, questo è il mio intento e il mio tentativo. Spero di riuscire ad avvicinarmici, almeno un po'. Il lettore troverà l'esposizione di alcuni ragionamenti ripresa più volte attraverso i testi. Mi scuso con coloro ai quali ciò suonerà ridondante. In realtà, in un certo senso, non parlo altro sempre che di una sola cosa, vista da tanti punti di vista diversi. Necessariamente, perché è "qualcosa" di cui, in sé, davvero non si può parlare. |
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